Day #2 – se familiariser

Non avverto i postumi del jet lag. Comunicato al mondo che sono viva e vegeta, skypato con mamma, inizio a prendere confidenza con il posto: Jurassic Park. Qui le lucertole sono grosse quanto un mio piede (porto il 40,5) e in giardino brucano iguane verdi come la bile, enormi. Detesto i rettili, il tragitto dalla porta di casa al cancello potrebbe procurarmi un arresto cardiaco. Ma qui è così…

La spiaggia è bianca, deserta, se non fosse per una coppia di nudisti e una di Soliti Italioti: lei si lamenta con la frustrazione di una casalinga brianzola di una qualche cosa che lui ha DI NUOVO dimenticato e lui in silenzio annuisce. D’altronde siamo ai Caraibi, si può sopportare.

Nemmeno il primo giorno, cosparsa – anche sulle orecchie – di un consistente strato di protezione 50, vengo risparmiata dall’eritema solare. Prediligo altre bolle di solito, metodo classico.

Baie Rouge, Marigot, Orient Bay, Oyster Pond e il ghetto (sì perché gli abitanti stessi lo chiamano “il ghetto”). Mai visto ragazze di colore più belle. Dal Bronx isolano si passa ai centri commerciali in cui imperano i brand internazionali più noti. Che posto, strano. Eppure tutto questo susseguirsi di ville con piscina olimpionica, baracche e auto abbandonate, spiagge pazzesche, rasta clochard ubriachi che fanno l’autostop, pettinatissimi (termine orrendo) Yacht Club…è come se fosse un unico gomitolo, tinta unita. Qualcuno sostiene che sia “meglio un disordine ordinato, che un ordine disordinato”. A St. Martin è la regola, easy.

Spiaggia di Baie Rouge

Day #1 – il viaggio della speranza

Sveglia alle 4, non ricordavo mancasse il gas in casa, niente caffè. Sulla Genova – Gravellona non si vede anima viva, ancora meno del solito. Il caffè dell’autogrill di Vercity sa di humus. Piove sulla A4 in direzione Linate. Al check-in la solita fortuna: “Signorina, il peso della sua valigia è illegale”. Mi si stringe il cuore, ma devo rinunciare a 3 bottiglie di ottimo barricato. Poi guardo la fila accanto alla mia: una coppia sta imbarcando un bovaro bernese. Il barbera almeno non abbaia, checcacchio! L’Esta è stata registrata erroneamente, rifare. Sono tra gli ultimi a salire sul volo per Madrid. Sì fatica a riposare, il brasiliano nel sedile accanto russa più di mio padre dopo cene a base di bagna cauda. Si atterra in ritardo: mai corso così tanto per raggiungere il gate U72 direzione Miami. Mi fermo solo un attimo per notare le colonne portanti dell’aeroporto che sfumano dal verde al blu scuro (ne parlavamo giusto domenica a pranzo). Scambio il mio posto con un signore sudamericano che vorrebbe viaggiare accanto alla moglie e io guadagno il suo posto, più quello accanto, libero (sèèèèèèè!!!).
E così mi improvviso blogger, ovvero verbalizzo sproloqui per fare passare il tempo durante un volo (apparentemente) interminabile.
Ho scoperto che le Albóndigas sono polpette (dicono) di carne, meno digeribili di una peperonata. Ho visto pucciare il pane nel caffè americano: mi sento già lontanissima da casa. Recupero subito con una Dolce Vita ghiacciata: welcome to Miami International Airport.
Riesco a dormire per un’ora scarsa sul volo (l’ultimo) per St. Martin e mi sveglio di soprassalto: per il rumore dell’aereo stavo sognando di essere in metropolitana a Milano, direzione ufficio e di essermi addormentata saltando la mia fermata. Ma per fortuna quello è un incubo finito.

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Aeroporto di Madrid