Week #10 – esagerazioni

Il giovedì al Calmos Café c’è la serata Salsa. Un’avvenente cantante colombiana anima l’orda di clienti: il locale è pieno, lo staff e i tavoli al completo, un delirio. La corposa band che l’accompagna suona divinamente anche se sembra soffrire a causa dei limiti di spazio.

Io e Chris (l’ormai ex skipper del Tender To che mi parla ancora nonostante la serataccia che gli ho fatto passare in barca tempo fa – un signore) esageriamo con le tapas e pure con il rosé, ma tra poche ore è il suo compleanno e i festeggiamenti (anche anticipati) sono obbligatori. Esagerazioni e contraddizioni: generosissimi fanciulli che insistono per offrirti la serata e pagano il conto con una banconota da 500 euro (non ne avevo mai vista una prima che non fosse del Monopoli). Giovani rampolli svizzeri a cavallo di un Hummer che faticano a suscitare anche solo un minimo d’interesse per il livello dei loro discorsi. Poi nel parcheggio fregano lo scooter a un poveraccio che lavora 12 ore al giorno sette giorni su sette. Mi sembra tutto assurdo, po’ ingiusto e mi gira la testa.

Il giorno seguente a riso bollito e caffè. Ho passato la serata a guardarmi l’intero cofanetto dell’Era Glaciale con addosso un piagiama di Hello Kitty (personaggio che tra l’altro odio, ma è un regalo e il piagiama in sé è comodo). Forse avrei dovuto richiedere un TSO…

La mattina intorno alle 10 ricevo la telefonata di Frederique, proprietario del Enthnic Bar, risotorantino sula spiaggia in fondo a Orient Bay, che mi è stato presentato da un tizio (un drageur sulla sessantina) mezzo francese, con nonno italiano ma che vive per metà dell’anno a San Diego che a sua volta ho conosciuto a La Playa mentre mi scolavo un pina colada il giorno del mio compleanno. Per arrivare al dunque una persona dello staff dell’Ethnic si è ammalata e Fred mi chiede una mano per il pranzo. Ci vado al volo.

Il locale è piccolo, intimo coloratissimo e accogliente, non mancano lettini e ombrelloni davanti all’ingresso. È carino, diverte solo a guardarlo. In cucina lo staff è completamente femminile, per cui cerco di frequentarlo il meno possibile anche se la chef è simpatica e sembra in gamba.

Riesco a fare una clamorosa figura di cacca proprio con un cliente italiano che chiamerò Roberto perché a causa della mia scarsissima memoria a breve termine non mi ricordo come si chiami e trovo abbia la faccia da Roberto. Mi sento Pif nella parte conclusiva delle puntate de Il Testimone, quando parte con la sua personalissima morale dal periodo indefinito e contorto. Roberto ha lasciato l’Italia 15 anni fa, aveva un rock club sul Naviglio Grande e, considerato il fatto che ha i capelli più lunghi dei miei raccolti in una coda ed è coperto di tatuaggi improponibili non stento a crederlo. Da Gratosoglio in giro per il mondo, fino a St. Martin ove si accompagna a una biondissima e rincoglionitissima Madame in perizoma multicolor  che mi interroga su una parolaccia italiana che tanto la diverte ma di cui non si ricorda.

Dopo il lavoro non mi nego un paio d’ore di spiaggia, soddisfatta della prima parte della mia giornata e ansiosa all’idea di lavorare di nuovo all’Ethnic il giorno seguente.

La sera ricevo un invito per lo Shore, una discoteca a Simpson Bay in cui non sono mai stata. Pare che ci sia una serata imperdibile, ne dubito ma decido di andarci. Esageriamo, anche se l’indomani dovrò lavorare. Infilo il mio tubino ed esco, decisa a estendere il mio network di conoscenze. Perché volenti o nolenti, il successo di un’iniziativa dipende anche dalle persone che conosciamo vecchie o nuove e che riusciamo a fare lavorare/agire nel nostro interesse.

Week #9.1 – scarpe

Bad new: i miei adoratissimi sandali infradito Les Tropéziennes, compagni di mille avventure (e che speravo di poter ammortizzare ulteriormente) sono passati a miglior vita. Decido comunque di tentare la terapia intensiva cercando un calzolaio (capace) sull’isola. Un forum su internet consiglia quello che si trova nei pressi della Marina Royale, a Marigot. Tenterò… Sono scettica da quando ho intrapreso la ricerca di una lavanderia a secco: ho visitato parecchie laveries, ma senza successo. Ebbene sì, perché su questo “scoglio in mezzo all’oceano” ci sono ben tre centri assistenza (nonché rivenditori autorizzati) Apple, ma sembra non ci sia una lavanderia a secco!!

Ottima idea portarsi un quarto del guardaroba estivo in seta! Inevitabile a pensarci bene, perchè “siamo ciò che vestiamo”. Alla domanda di Alberta Marzotto (e titolo del suo libro) “L’abito fa il monaco?” rispondo sì, per quanto non sia un capo di abbigliamento in sé a rappresentarci e di conseguenza a permetterci di delineare almeno una parte delle infinite sfumature di una personalità, quanto il modo di portarlo e di farne il proprio stile. Non so come sono arrivata a questa riflessione, certo un po’ mi mancano le possibilità che offre lo shopping milanese, qui la scelta non abbonda e l’abbigliamento comune tendenzialmente si limita a costume, pareo e infradito.

Bando ai frantendimenti, non sono una fanatica degli acquisti, le mie misure e il mio portafoglio non me lo permettono. Trascorrere interi pomeriggi per negozi mette a dura prova il mio sistema nervoso, riesco a farlo in rare occasioni e con la giusta compagnia. Tendo a evitare gli outlet come la peste se non per acquistare stock di mutande e collant per tutta la stagione invernale. Al massimo torno a casa con una t-shirt, rigorosamente bianca. Ormai ne ho collezionate di ogni genere: con lo scollo a barca, con discrete rouges sul davanti, la superclassica girocollo, quella con lo scollo a “V” e i bottoncini, con drappeggio sulla scollatura… sono senza speranza.

Compro quello che mi piace, che mi concedo ritenendolo “quasi” indispensabile senza remore, perché sarebbe più difficile sopportare il pentimento per un mancato e bramato acquisto che un addebito sulla carta di credito. Il mantra che alleggerisce la coscienza è “lo prendo, tanto lo metterò per 10 anni”. Credo di averlo pensato anche per le Tropéziennes.

Non sono una fanatica nemmeno di calzature, ho il piede troppo lungo che restringe inevitabilmente la scelta, detesto il plateau e un paio di zeppe ai miei piedi sembrerebbe un abuso edilizio. Mi assicuro semplicemente di avere scarpe dalle cromie “passepartout” per ogni stagione: banche, nere, beige e cuoio, che si tratti di sandali o stivali (stivali bianchi no, li lascio volentieri a Britney Spears). Gli acquisti in più varianti cromatiche sono il mio forte, come con i golfini: tutti uguali (anche 4 o 5) ma di colore diverso, così risolvo il problema in un colpo solo. Molto maschile come atteggiamento, fa riflettere…

Mi piacerebbe essere un paio Pigalle di Louboutin in vernice nera con l’immancabile suola da red carpet, ma mi devo accontentare di essere un paio di ballerine verde pisello dell’Artigiano di Brera, almeno per ora.

Week #9 – lotterie farm

Guarita dalle bolle, finisce la reclusione. L’invito per l’aperitivo diurno alla Lotterie Farm casca a pennello.

Non saprei come descrivere il luogo: è una sorta di oasi naturale che si trova sulla tortuosa strada per Pic Paradis (ove mi ostino a non usare il clacson, è più forte d me). Ci sono un ristorante e un lounge bar costruiti su una palafitta, per entrare è necessario attraversare una lunga rampa di legno. Continuano ad arrivare turisti che sembrano sponsorizzati dalla Quechua facendomi sentire alquanto inadeguata. Poi scopro che tale dress code è giustificato dalla presenza di un parco con tanto di percorso avventura. Mentre scendo verso la piscina immersa nel verde, all’urlo di Tarzan sfrecciano soggetti di vario genere imbragati, lungo una fune sospesa tra gli alberi, sembra divertente. Seguo il percorso delle palafitte, questa volta si tratta di piccoli salottini privati (tappezzati di blu, beige e verde, ti viene voglia di buttarti subito tra i cuscini solo a guardarli) che si possono affittare per la giornata e arrivo al luculliano aperitivo. Il perché continuino tutti a ripetere al cameriere che sono italiana e bevo come una spugna non l’ho capito, o almeno non capisco perchè le due affermazioni – per quanto vere – debbano essere connesse, una la conseguenza dell’altra. Sono incuriosita e sbircio in giro: mi accorgo che nella piscina si tuffa tra le rocce una piccola cascata e immagino che si tratti dell’acqua proveniente dalla sorgente di cui mi hanno parlato. Risalgo la “cascata” per arrivare alla fonte, ma non c’è nessuna sorgente, bensì un’altra palafitta privata che sovrasta due enormi Jacuzzi. Pas mal anche se mi aspettavo altro, ma mi confermano comunque l’esistenza della fonte, da qualche parte.

Abbandono l’aperitivo per fare un paio di commissioni tra Marigot e la parte olandese dell’isola. Qui, in una gioielleria/tabaccheria/negozio di liquori gestita da una famiglia pakistana, per qualche motivo racconto la storia della mia vita degli ultimi mesi al proprietario mentre cerca di vendermi degli orrendi orecchini che sostiene “spopolino” tra le turiste americane. Coprono tutto il padiglione auricolare, sono indescrivibili tanto sono brutti, così cerca di recuperare e mi propone una medaglietta incisa la mappa di St. Martin. Lo ringrazio e gli dico che non sono interessata, non rischio di perdermi (sono la solita stronza, lo so). Dopo essermi regalata un abito coloratissimo (bianco e nero) e stravagante (l’ennesimo tubino, sono incorreggibile), scappo a casa dove mi aspetta una nuova visita del tizio che pulisce la piscina e che ha qualche problema a rispondere al telefono (mi ha fatta diventare una stalker di segreterie). L’obiettivo è di far tornare la pozza d’acqua com’era prima in un paio di settimane, per due motivi: 1) sembra una laguna e al ritorno di Arnaud ambirei che fosse di nuovo balneabile; 2) tolgono l’acqua in continuazione per fare lavori alle condutture e devo pur potermi lavare in qualche modo. Lo stronzo ovviamente non si presenta, ne approfitto per andare a La Playa a salutare Jear e comunicare che sono viva. Lo staff non perde l’occasione di prendermi per in giro nel momento in cui giustifico la mia assenza per colpa della rosolia. Quanto mi è mancata la spiaggia!

Il giorno successivo è forzatamente dedicato al mare, così dopo aver trovato un’altra scolopendra (sembra ci sia un festival questa settimana) e aver raccolto un’infinità di pelo di Calypso dappertutto (com’è possibile che ne abbia ancora addosso non so) calzo le infradito e vado a “svenire” su una sdraio. C’è molto vento, caldo, sembra di stare sotto un phon, ma non è fastidioso, è piacevole, si sta una favola!

Ore 18,06, in Italia è già il 20 luglio, quindi il mio compleanno. Vado al Calmos Cafe e comincio le celebrazioni, gongolante all’idea di avere 6 ore in più per i festeggiamenti quest’anno (volendo giocare con il fuso orario). Planteur meritatissimo, non vorrei essere altrove in questo momento.

Il mio oroscopo consiglia di trascorrere la giornata al mare. Non starò di certo online ad attendere la notizia della nascita del royal baby…

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Lotterie Farm

Week #8 – totodiagnosi

Dopo aver trascorso una nottata febbricitante, la mattina mi ritrovo macchiette rosse anche sui palmi delle mani e menomale che il rush sembrava in fase di guarigione.

Scocciata, faccio quello che forse avrei dovuto fare da subito: vado al pronto soccorso. Se avessi avuto qualcosa di grave non sarei arrivata viva in ospedale, riuscire a trovarlo è stata un’impresa.

Manco a dirlo la sala d’aspetto è piena e arrivano continuamente persone messe peggio di me, anche un detenuto zoppicante accompagnato dalla Gendarmerie. A parte i brividi sto bene, mi annoio un po’ nell’attesa. Il ronzio delle macchinette di snack e le persone in attesa che sbuffano, creano un sottofondo quasi ritmico. C’è anche una gallina appena fuori dalla porta d’ingresso che becca briciole di patatine dal pavimento.

Finalmente il mio turno. Il medico, un signore sudamericano sulla cinquantina molto gentile, legge sulla scheda di accettazione che sono nata ad Alessandria: “Ah, égyptienne!”. Questa mi mancava, passiamo oltre. Gli spiego i trascorsi e mi dice anche lui che potrebbe trattarsi di una forma di dengue o di rosolia. Per escludere la prima ipotesi insiste per farmi un prelievo e analizzare il sangue.

Quattro provette prelevate mi sembrano una scusa sufficiente per divorare un pacchetto di M&M’s senza sentirmi nemmeno un po’ in colpa.

Un’ora e una quindicina di partite al solitario più tardi arrivano i risultati: negativi. Il medico mi spiega che il test è comunque da rifare dopo qualche giorno perché il visus dengue può non risultare da subito e continua a sostenere che si tratti di rosolia.

Ho la febbre, sembro la Pimpa, ho appena speso una cifra assurda per la visita e le analisi ematologiche eppure mi viene da ridere, istericamente: posso essermi presa la rosolia a 27 anni??!!! Malattia che tra l’altro mi sembra di aver già avuto da bambina, anche se in forma leggera. Ma soprattutto, mentre sono ai Caraibi mi deve venire la rosolia?!! Dovrei essere in spiaggia a grattarmi con una mano e reggere un Planteur con tanto di ombrellino e ciliegia al maraschino con l’altra.

In età scolare preghi che ti vengano anche solo due linee di febbre per startene a casa qualche giorno e passare il tempo a guardare la tv, rigorosamente in pigiama dal mattino alla sera e invece non ti buschi nemmeno un raffreddore. Ovviamente però ti viene la febbre alta la sera prima di partire per la gita scolastica a Barcellona, che culo eh? E’ sempre stato così, anche a Madrid ci sono andata con la febbre, sembra che non mi possa permettere di uscire di casa (e forse la Spagna non è una meta favorita dagli astri).

Appena esco dall’ospedale inizia a piovere, temporale tropicale. Proseguo a 30 Km/h non vedo nulla, la strada è un fiume. Ora capisco davvero perché qui hanno tutti il fuoristrada, ho incrociato una Twingo e giuro che non ne vedevo le ruote.

Faccio incetta di paracetamolo in farmacia e torno a casa, mentre penso a se e come comunicare alle persone con cui ero a cena ieri sera che potrei avere una malattia infettiva e avergliela trasmessa.

Farò le altre analisi prima di dare l’allarme generale, ma lancio comunque un appello: non potendoli sterminare almeno vacciniamoli i bambini, portano più malattie dei piccioni!

Week #7 – eruzione

Quelli che credevo essere (perché sembrano) segni punture di zanzara si sono diffusi su tutto il corpo. Scoprire di primo mattino un’estesissima eruzione cutanea non era esattamente quello che avrei desiderato per iniziare la giornata. Presa da un attacco d’ipocondria faccio una ricerca su internet, mentre bevo il caffè. Non è eritema, sono un’esperta in materia e lo riconoscerei. Reazione allergica? Non sono allergica a nulla. Intossicazione alimentare? Non ho mangiato nulla di strano, le solite cose. In cima alla classifica delle possibili malattie c’è l’orticaria, ma dalle immagini di google non riconosco le stesse chiazze rosse.

Prima di correre in ospedale presa dal panico cerco un consulto in farmacia e spero di risolverla con un antistaminico. La farmacista mi guarda e il suo viso si scurisce, mi dice di aver già visto casi del genere e che potrei avere la febbre da dengue (l’eruzione cutanea è uno dei primi sintomi). Bene. Non posso fare nulla se non aspettare il giorno successivo nell’attesa che compaiano altri sintomi a conferma di aver contratto il virus.

Mentre guardo The Iron Lady, monitorando di tanto in tanto l’espansione del rossore sulle mie braccia mi crogiolo sulla poltrona maledicendo tutte le zanzare della terra, giusto per avere un capro espiatorio.

Squilla il mio telefono italiano (strano). Numero sconosciuto, rispondo:

– “Pronto!”

– “Sono Gesù Cristo e ti sto chiamando dalla croce”.

Non capirò mai perché i ragazzini si divertono così tanto a fare scherzi telefonici, ma mi spunta un sorriso alla Gargamella immaginandomeli consultare il conto telefonico, ignari di aver chiamato i Caraibi.

Niente febbre, niente dolori articolari, niente dengue! Un unico pastiglione al giorno dovrebbe funzionare contro allergie, orticaria e rush di vario genere. Una “bomba” da quanto si evince dal bugiardino, spero funzioni.

Per distogliere l’attenzione dal problema epidermico decido di fare un giro a Philipsbourg. Niente nave da crociera attraccata in porto e niente turisti, il deserto. È incredibile come abbia cambiato aspetto questo posto dalla prima volta in cui lo vidi affollato di americani in preda a un attacco di shopping compulsivo, non sembra lo stesso. Una passeggiata sul lungo mare vale comeunque la pena. In Back Street i miei buoni propositi per fare acquisti svaniscono nel momento in cui vedo l’insegna sciupata di Zara sopra l’entrata di un negozio di “cineserie”. La tattica – ammesso che si tratti di una tattica – funziona, alcune ragazze (turiste) entrano a curiosare.

Solo il viaggio e gli splendidi panorami che incontro rientrando verso Orient Bay bastano a ricompensare i mancati acquisti. Vivere al mare è “un’altra storia”, solo adesso capisco la malinconia di molti “marittimi” costretti a stare in città per motivi lavoro. Si inizia e si vive la giornata con un’energia diversa. Forse per la consapevolezza che per quanto possa essere dura una giornata o anche un’intera settimana, ci sia sempre il mare in cui annegare ire e frustrazioni.

Per darmi il colpo di grazia prima della fine della giornata passo all’Euronics a Grand-Case e mi compro una pesa persone. Beh, almeno vivo al mare…

Week #6.1 – Île de Pinel

Decido finalmente di andare a Pinel, l’isoletta che si trova a nord ovest di St. Martin. Dicono sia un posto idilliaco.

Mi dirigo a Cul de Sac, al porticciolo da cui partono le imbarcazioni per l’isola. Arrivata al molo chiedo a un anziano signore (che sembrava gestire il traffico di persone) seduto in un angolo dove poter fare il biglietto per il traghettamento. Mi risponde che oggi per le ragazze c’è uno sconto speciale, possono pagare anche in natura (ecco, pure il vecchio porco ho beccato) e che la barca sarebbe arrivata entro qualche minuto.

Prima di partire il “capitano” augura ai passeggeri buon viaggio, donando alcune informazioni: per il ritorno c’è una barca ogni ora, all’una, alle due, alle tre, l’ultima parte alle 4 e raccomanda di non perderla. Conclude con “passate una buona giornata e non bevete troppo”. Può sembrare una battuta, ma ho visto più gente collassata in qui spiaggia che alle feste dei collegi a Pavia.

Quello che immaginavo essere un piccolo traghetto è in realtà una bagnarola dipinta di turchese, capace di portare 25 persone al massimo, sedute su panche sgangherate. Essendo una degli ultimi (futuri naufraghi) a salire, finisco per sedermi davanti, beccandomi tutti gli schizzi delle onde in pieno viso (è un’associazione assurda, ma la situazione mi ricorda il giro sui tronchi di Gardaland).

Dopo ben 10 minuti di navigazione (credo ci avrei messo lo stesso tempo a nuoto con un minimo di allenamento) attracchiamo al molo. L’isola è davvero piccola, ci sono un paio di ristorantini con annessi lettini e ombrelloni, nient’altro. Ti fa venire voglia di cercare Mercoledì.

Il fondale è chiarissimo e puoi camminare per almeno un centinaio di metri con l’acqua che ti arriva sempre all’ombelico.

In mattinata sbarcano sempre più persone. Cappellini e costumi da bagno a stelle e strisce si sprecano, oggi è il 4 luglio.

La giornata è calda come non mai e – come testimoniano le mie spalle arrossate – molto soleggiata.

Decido di mangiare qualcosa (i soliti Acran, ormai ne ho sviluppato una dipendenza) e mi rifugio in uno dei ristoranti. Trovo il tavolo perfetto, all’ombra, sulla sabbia, affacciato a un piccolo molo e parto alla sua conquista. Peccato non aver notato subito le 4 iguane che mi sbarrano la strada. Faccio un salto come se avessi pestato un carbone ardente e indietreggio cautamente cercando un’altra sistemazione. Sono brutte e hanno l’aria cattiva, le iguane. Poi da quando mi hanno detto che la loro coda è tagliente come un rasoio cerco di starne ancora più alla larga. Un minuto dopo vedo alcuni bambini dare da mangiare a questi dinosauri inestinti e mi sento terribilmente idiota.

Torno al sole che non “picchia” più troppo forte: ho quasi voglia di perdere la barca delle 4.

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Isola di Pinel

Week #6 – gold

È venerdì mattina e le crocchette di Tempo sono finite: ci ho messo 20 minuti buoni a trovare il veterinario a Grand-case, ma missione compiuta. Il meteo sembra promettere bene, mi fermo al villaggio per “provare” la spiaggia. È deserta, gli stabilimenti e i ristoranti sono chiusi (strano), ci sono solo io. In lontananza qualche “local” che porta a spasso il cane e i soliti crackman che vagabondano.

L’acqua è cristallo e in questa spiaggia – a differenza delle altre – diventa subito profonda, come piace a me. I gabbiani trovano rifugio sui tender legati alle boe che delimitano lo spazio per i bagnanti (non vorrei mai essere nei panni di coloro che ci dovranno salire successivamente). Passo il pomeriggio a guardare i bambini che si tuffano dal molo con un po’ di invidia.

Nel pomeriggio ricevo un invito per l’aperitivo, sul Tender To. È uno yacht di 30 piedi color oro – oro! – ormeggiato alla marina di Fort Saint Luis (a Marigot) dove spicca senza pudore tra le altre imbarcazioni. Mi fa venire in mente “Gold” degli Spandau Ballet (che poi ovviamente non riesco più a togliermi dalla testa). Gli interni sono tutti beige, candidi e sofisticati, tutto profuma di nuovo. I lavori di ristrutturazione sono ancora in corso, ma è già una meraviglia. Non voglio scendere! Non voglio scendere!

Scendiamo per la cena al Plongeur, proprio di fronte all’ingresso della marina. Serata piacevolissima, ma dopo la sambuca a fine cena inizio ad avere difficoltà, grosse difficoltà.

Il mattino seguente mi sveglio intorno alle 10 per il rumore dell’acqua che sbatte contro la parete della barca: barca??!! Mi sono sentita male ed evidentemente non era il caso che mi mettessi alla guida per tornare a casa. Quando realizzo di aver fatto passare a Chris – lo skipper – una serata indimenticabile (e non in senso positivo) la frase “che figura di merda!” inizia a ripetersi in loop nella mia testa, come a formare un vortice in cui non c’è spazio per altri pensieri.

Temo di aver perso il mio nuovo amico nel giro di due ore, record.

Il sabato trascorre in “fase ripiglio”, se dovessi descrivere la giornata in un tag twitter sarebbe: #mangiotuttoquelllochehonelfrigocompresiisurgelatigurdandofilmchenonriescoaseguire. Mi riprendo verso l’una di notte guardando CSI, anzi Les Experts (come si chiama in Francia).

La domenica vola, mentre sono spiaggiata a riva, qui a Orient Bay. Mi raggiunge un amico per fare una chiacchierata e bere una birra verso sera, mentre consultiamo siti di stazioni metereologiche per verificare la situazione delle correnti atlantiche in vista degli uragani di agosto. Nulla di allarmante per ora, almeno sembra.

Concludo la giornata al Calmos cafe: ci devo andare almeno una sera a settimana, ne sono ormai dipendente. Come è possibile innamorarsi così di un baracchino sulla spiaggia?! Come sempre qui trovo le condizioni ideali “buttare giù” qualche pensiero e produrre nuovi articoli, mi ispira…

Lunedì è l’Emancipation Day a St. Maarten, quindi festa per la parte olandese dell’isola: niente spesa tax free, ci penserò domani. Vado a trovare Jear a La Playa per fare due chiacchiere e godermi per un paio d’ore lo splendido sole. Peccato aver dimenticato di mettere la crema solare sulle braccia. Peccato. Vorrei staccarmele.

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Il Tender To