Week #7 – eruzione

Quelli che credevo essere (perché sembrano) segni punture di zanzara si sono diffusi su tutto il corpo. Scoprire di primo mattino un’estesissima eruzione cutanea non era esattamente quello che avrei desiderato per iniziare la giornata. Presa da un attacco d’ipocondria faccio una ricerca su internet, mentre bevo il caffè. Non è eritema, sono un’esperta in materia e lo riconoscerei. Reazione allergica? Non sono allergica a nulla. Intossicazione alimentare? Non ho mangiato nulla di strano, le solite cose. In cima alla classifica delle possibili malattie c’è l’orticaria, ma dalle immagini di google non riconosco le stesse chiazze rosse.

Prima di correre in ospedale presa dal panico cerco un consulto in farmacia e spero di risolverla con un antistaminico. La farmacista mi guarda e il suo viso si scurisce, mi dice di aver già visto casi del genere e che potrei avere la febbre da dengue (l’eruzione cutanea è uno dei primi sintomi). Bene. Non posso fare nulla se non aspettare il giorno successivo nell’attesa che compaiano altri sintomi a conferma di aver contratto il virus.

Mentre guardo The Iron Lady, monitorando di tanto in tanto l’espansione del rossore sulle mie braccia mi crogiolo sulla poltrona maledicendo tutte le zanzare della terra, giusto per avere un capro espiatorio.

Squilla il mio telefono italiano (strano). Numero sconosciuto, rispondo:

– “Pronto!”

– “Sono Gesù Cristo e ti sto chiamando dalla croce”.

Non capirò mai perché i ragazzini si divertono così tanto a fare scherzi telefonici, ma mi spunta un sorriso alla Gargamella immaginandomeli consultare il conto telefonico, ignari di aver chiamato i Caraibi.

Niente febbre, niente dolori articolari, niente dengue! Un unico pastiglione al giorno dovrebbe funzionare contro allergie, orticaria e rush di vario genere. Una “bomba” da quanto si evince dal bugiardino, spero funzioni.

Per distogliere l’attenzione dal problema epidermico decido di fare un giro a Philipsbourg. Niente nave da crociera attraccata in porto e niente turisti, il deserto. È incredibile come abbia cambiato aspetto questo posto dalla prima volta in cui lo vidi affollato di americani in preda a un attacco di shopping compulsivo, non sembra lo stesso. Una passeggiata sul lungo mare vale comeunque la pena. In Back Street i miei buoni propositi per fare acquisti svaniscono nel momento in cui vedo l’insegna sciupata di Zara sopra l’entrata di un negozio di “cineserie”. La tattica – ammesso che si tratti di una tattica – funziona, alcune ragazze (turiste) entrano a curiosare.

Solo il viaggio e gli splendidi panorami che incontro rientrando verso Orient Bay bastano a ricompensare i mancati acquisti. Vivere al mare è “un’altra storia”, solo adesso capisco la malinconia di molti “marittimi” costretti a stare in città per motivi lavoro. Si inizia e si vive la giornata con un’energia diversa. Forse per la consapevolezza che per quanto possa essere dura una giornata o anche un’intera settimana, ci sia sempre il mare in cui annegare ire e frustrazioni.

Per darmi il colpo di grazia prima della fine della giornata passo all’Euronics a Grand-Case e mi compro una pesa persone. Beh, almeno vivo al mare…

Day #28 – sogni da pendolari

Ieri notte ho sognato di tornare a casa (in Monferrato) per il week end, dalle Antille. Il viaggio era stato breve e non avvertivo jet lag.

È sabato mattina a Casale Monferrato e giro il mercato di Piazza Castello in bicicletta (anche se il mercato è il venerdì e non io ho una bicicletta) incontrando un giornalista del bisettimanale locale e altri visi conosciuti, che però non riesco a identificare. Sembra autunno, la mattinata è soleggiata, ma io indosso abiti troppo leggeri sotto il mio doppio petto blu di cotone da Capitan Findus. Chiacchiero qua e là con tutti quelli che si fermano per i saluti, i soliti convenevoli: “Come stai?”, “Bene e tu, come va?”, “…a casa tutti bene, grazie, te li saluterò”, bla, bla, bla…

Poi, la domenica pomeriggio prendo il mio trolley rosso, lo riempio di vestiti puliti e stirati e me ne torno a St. Martin, la sera. Anche il viaggio di ritorno sembra durare un paio d’ore al massimo.

Nessun contenuto manifesto del sogno rispetto a quello che può essere accaduto da quel sabato mattina fino al momento di ripartire.

Se dovessi immaginarmelo sarebbe andata così: dopo il tour del mercato, passo dall’ottico accanto al Duomo per ritirare le lenti a contatto (cosa che realmente non sono riuscita a fare prima della partenza, essendo arrivate il giorno successivo) e attraversata Via Roma faccio un salto da “Gusto” (“Il posto giusto” – gastronomia) a salutare la famiglia Re e bermi un prosecchino seguendo poco attentamente la descrizione del grana di bufala, che sto assaggiando, da parte del loquace zio Vittorio.

Torno a casa per il pranzo. La nonna ha fatto in casa i pansotti liguri, affogati nel sugo di noci. M’ingozzo fino a una crisi iperglicemica.

Dopo pranzo vado a Sala a salutare Mario, intento – nella sua falegnameria – a perfezionare una copia del comodino che Hemingway aveva nella sua casa di Cuba (destinato a me). Lo interrompo per un caffè.

Rientro a casa e dopo aver dato una sistemata all’armadio (in cui tutti gli abiti sono – e devono essere sempre – ordinati secondo forma e colore per una mia perversa fissazione), scattano i messaggi di gruppo per organizzare la serata. Sono costretta a rifiutare l’ennesimo invito di mio cugino Sandro alla serata “Avanzi di balera” a Torino, essendo il week end una “toccata e fuga”.

Raggiungo le mie amiche che definisco sempre “di adolescenza” (perché per noi quel periodo non è mai finito, quando siamo insieme torniamo a essere sceme come all’epoca) al bar San Carlo, dove mi basta un cenno a Totò (lo storico barista con una passione sfrenata per il Pastis) per avere il mio Spritz con la China Martini.

Dopo, servono solo pochi passi per raggiungere l’appartamento di Adi, in un palazzo antico del centro storico. L’atrio odora sempre di cera per mobili e di polvere. I quattro piani di scale a piedi fino alla mansarda fanno sì che chiunque non abbia un’adeguata preparazione atletica arrivi già assetato e col fiatone, soprattutto se salendo si è trasportato il vino per la luculliana cena con la solita fedele compagnia.

Armati di tessera Arci si va a Vercelli (o Vercity per chi preferisse). Alle Officine Sonore suona un gruppo rock, più che altro fa rumore ma per fortuna il “concerto” è quasi al termine e parte, dopo qualche minuto, il dj set di The Professionals. Qualche birra più tardi (poche in vista del rientro a casa e sempre nella speranza di non incontrare posti di blocco), sudati per aver saltellato tutta la sera sulle note di Elvis, torniamo verso Casale e ci riaccompagnamo alle rispettive auto parcheggiate in Piazza.

La domenica mattina al risveglio, intorno a mezzogiorno, le orecchie fischiano ancora. Pranzo con la famiglia, un pochino di relax divano-tv e ci si prepara a ripartire. Mia sorella in direzione Torino, io in direzione Mila… No, Caraibi.