Week #36 – gli anni del Barolo

Quest’anno è partito così, con il Barolo e al Barolo.

Ci sono gli anni del Fegato di Vitello, quelli che fanno ancora impressione a ricordarci, quelli che infastidiscono per la loro consistenza, che sanno di vita e di sangue, sono diventati il nostro piatto meno favorito, che ci auguriamo di non assaggiare mai più.

Poi ci sono quelli After Eight in cui le giornate di lavoro non terminano mai prima delle 20, quelli che sono un contrasto, un miscuglio di elementi eterogenei, ma che alla fine fanno fa piacere aver gustato ricordandoli come un dessert gradevole in confronto ad altri.

Ci sono gli anni degli Acras Creoli, quelli che sanno di fritto e di rivoluzione, di sole, di pesce e di salsa piccante. Gli anni in cui l’estate ti scorre nelle vene e davanti agli occhi senza interruzione. Quelli che non ci si pentirà mai di aver ordinato, nonostante qualche distrurbo di digestione.

Ci sono gli anni della Quiche Senza Formaggio, quelli che sfamano, che sono senza poche pretese ma apprezzabili, che dopo qualche tempo iniziano a stufare e fanno bramare un’altra ricetta. Quelli delle sperimentazioni più o meno bene riuscite.

Ci sono anche gli anni degli spinaci che spessoo sono amarissimi e rare volte dolci e rigeneranti. Quelli che si deve mangiare ogni tanto, perchè fortificano. Quelli che mezzo mondo ha sicuramente nel freezer e ogni tanto scongela.

Poi ci sono gli anni del Barolo, come questo. Quelli che richiedono pazienza, ossigeno e di essere decantati. Quelli che saranno sicuramente buoni e importanti. Quelli che sono intensi, che però non ci si può gustare senza alla base un piatto adatto, sarebbero un peccato e uno spreco. Che se ne inizi a berne un bicchiere non finiresti mai, fino a raggiungere il benessere desiderato. Niente sentore di tappo per ora, ma c’è sempre il rischio di incappare nella bottiglia sbagliata. Stappiamo?

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Week #34 – progress-i

Il giorno dell’Epifania è stato quello del mio ritorno alla web communication. Entusiasta, motivata, positivamente affascinata dalla situazione lavorativa che mi si prospetta – soprattutto a seguito di una pessima esperienza di agenzia nella “dutch side” – sfodero dal primo giorno la mia arma più potente: il progress. Tutto il pomeriggio a “sferruzzare” una maglia di caselle excel nel tentativo di conferire una logica e rendere comprensibile il lungo elenco dei lavori in corso. Sembra funzionare.

A distanza di quasi due settimane dal mio nuovo inizio come “robottino del digital” sono terribilmente frustrata: non è così facile come pensavo riuscire ad adattarsi nuovamente ad una piccola realtà – riferendomi sia all’agenzia che alle ridotte lande che la circondano fino ai confini con l’oceano – dopo aver provato l’ebrezza del network internazionale con sede meneghina ed essersene intossicati. Sulla scrivania non manca la mia borraccia bianca e il Mac viaggia come un tempo nella shopper bianca con le scritte blu dall’aspetto decisamente vissuto. Sono i miei amuleti.

Oltre a intoppi durante un primo tentativo di riorganizzazione drastica, non avevo messo in conto i problemi di connessione internet che su un isoletta in mezzo al mare possono arrivare. Se a tutto ciò aggiungiamo la luna piena e di conseguenza – come sempre accade – un pessimo rapporto con tutto ciò che possa definirsi “tecnologico” (dalla lavatrice, al provider telefonico, all’ftp…funzionasse qualcosa!) la settimana diventa davvero faticosa e non c’è nessuna “Prof.” guardiana di server e maga di sistemi informatici a salvarmi le chiappe.

Mi ero ripromessa di essere meno “mastino” per evitare lo stress da lavoro, ma sembra che non importi dove tu vada, se è necessario trovare soluzioni e implementarle, ci si deve imporre e “sudare”. Imporsi di venerdì 17 è un rischio, ma se si deve correre…corriamolo. Così Miss Hyde prende il sopravvento su Dott. Raviz e… whatever works come insegna Woody Allen.

Durante la giornata continuo a incappare in situazioni bizzare:  la mattina, in ritardo e costretta a fare l’autostop per arrivare in ufficio (causa totale assenza di bus di passaggio nella mia direzione), vengo recuperata da un tizio che si scopre essere mio cliente, ma che di persona non conoscevo ancora. Lungo un breve tratto a piedi attraversando Grand-case incontro la metà dello staff del Calmos Café, tutti in direzione lavoro e ancora stravolti dalla serata salsa del giorno precedente…piacevoli scambi di battute, ma il mio ritardo si dilata sempre di più…

Con sorpresa e con i consueti ritmi caraibici tutto sembra risolversi: cambio gestore telefonico e compro un motorino onde evitare di incorrere in ulteriori presentazioni ufficiose da autostop. Il bucato non è venuto gran che bene, ma un’altra settimana è andata.

Week #33 – home

Mia mamma è tornata a casa ieri mattina e io dopo una faticosa ma fruttuosa setiimana di lavoro, pur sognando la spiaggia, ho approfittato della giornata di pioggia per fare grandi pulizie e spese.
A fatica – ma dovevo vederlo tutto! – ho anche visto e apprezzato questo straordinario documentario, su consiglio di Arnaud. Non lo conoscevo e nel caso non sia l’unica ad averlo scoperto stasera, lo consiglio.

Week #32 – abbiamo fatto 31

E che 31! Mi fa strano anche il Capodanno qui, settimana assolutamente non convenzionale.

Sì perché con la scusa che mia mamma è venuta a trovarmi…pazza gioia!

Spiaggia, cene, festeggiamenti, spiaggia, shopping, pranzi da 5 ore con cubiste sui tavoli, spiaggia, foto, foto, foto…

Colpi di sole e di vento, foie gras (e il mio colesterolo ormai comincia ad alzarsi solo a pensare di tartinare), 6 temporali tropicali due giorni fa, l’alternanza con mezze giornate di sole pazzesco, rientri (miei) alle 6 del mattino con bruciatura di sigaretta vicino a un orecchio e male ai piedi inestimabile…la bilancia poi…

L’unico problema sono sempre – ma non si contano mai – i postumi da festeggiamenti dionisiaci: primo giorno di nuovo lavoro e dalle 9 a mezzogiorno ho bevuto 4 caffè, ma sono comunque riuscita a imbastire un superprogress di agenzia. “Mi pacco” sulla spalla.

Ritorno a una vita con orari civili, d’ufficio, anzi a una vita con orari. Negli ultimi mesi sono stati parecchio sballati per esigenze di lavoro soprattutto, ma non mi è mancato il tempo libero, molto tempo libero che ho impegnato nel blog, nel sistemarmi à St. Martin. Sperando sempre che qualcuno pagherà una mia ipotetica bassissima pensione, non rimpiango gli ultimi mesi di “fermo”, non potrei. Paradossalmente credo di non aver mai guadagnato tanto in vita mia prima in quanto a esperienze, occasioni, conoscenze, anche se è stato necessario darsi da fare parecchio.

“Sì credo di aver avuto una bella idea”. Disse mangiucchiandosi una madeline con pepite di cioccolato. E stanchissima, ma soddisfatta crollò sul divano rosso.

Taglio corto, ma in cambio offro (rari) contributi fotografici.

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Capodanno a Pic Paradis.

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Kokomo beach.

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Philipsburg.

Week #31 – noël fa rima con bordel

Natale è arrivato ed è già passato, come un fulmine, come una di quelle punturine per i vaccini che impensieriscono ma alla fine risultano quasi impercettibili. Quest’anno non l’ho avvertito, o almeno questo non è il Natale “classico”, quello che si può trovare descritto nei libri illustrati per bambini, ma soprattutto non c’è nebbia e la mia famiglia non è qui.

Ho trascorso buona parte delle feste su Skype a parlare con chiunque, familiari e amici, molte persone che non sentivo da tempo, è stato davvero un bel regalo. Ecco, se il Natale fosse esclusivamente l’occasione per rincontrare – nel mio caso riparlare ad – amici e familiari che non si ha modo di vedere spesso nemmeno virtualmente, sarebbe sempre benvenuto. Se invece mi tocca sorbirmi una transumanza di turisti, per la maggior parte brutti (ma proprio brutti!) che sembrano gareggiare per la Palma (premio azzeccato al contesto tra l’altro) del costume da bagno più imbarazzante e che ti barcollano intorno ubriachi con tanto di cappello da Babbo Natale di pelo in testa (con 30 gradi…ma perché???), quasi preferisco il deserto del mese di settembre!

Il Mio Natale è iniziato il 27, quando – dopo aver lucidato casa come in preda a un raptus – sono partita alla volta dell’aeroporto a recuperare mia mamma, appena atterrata da Amsterdam insieme a un gruppo di amici di famiglia.

Dice (mia mamma) di trovarmi molto cambiata. Lei, a parte parecchia stanchezza e stress accumulati negli ultimi mesi, non è cambiata affatto: dopo essere arrivate a casa e aver disfatto la valigia, ha subito ispezionato il giardino e con espressione contrariata mi ha chiesto un paio di forbicioni per poter potare un albero.

Temevo di doverla legare a una sdraio per riuscire a farla stare ferma, invece si sta adattando alla vita caraibica (non che sia particolarmente ostico l’adattamento…), alla Piña Colada a qualsiasi ora, alla vita in spiaggia, alla cucina creola, alle feste. Non è stata punta nemmeno da mezza zanzara, mentre il resto dei comuni mortali viene divorato vivo quotidianamente e dopo 3 giorni è più abbronzata di me che sono qui da 7 mesi (fastidiooo!).

Quanto a me, mi godo gli ultimi giorni di vacanza per poi riprendere la solita routine, o cominciarne una totalmente nuova… Ci penserò, quando avrò ripreso conoscenza, dopo il veglione che ci attende stasera a Pic Paradis. Buon 2014!

 

Addio sobrietà.

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Week #30 – letterina

Come per tradizione della terza rete nazionale anche quest’anno sta per arrivare il momento della “letterina a Babbo Natale” di Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa”, appuntamento imperdibile delle mie domenica sera che precedono il Natale.

L’anno scorso, in un apocalittico scenario casalingo prenatalizio, ben allungata sul divano sotto strati di pile decennale, tazzona di tisana e capello un po’ unto e raccolto, già durante l’intervista a un meraviglioso – come sempre – Corrado Augias mi stavo pregustando la parte finale del programma.

La mia compare sabauda entra in scena e dalle battute sulle profezie Maya che “sono come le promesse di Berlu” e alcuni commenti su improbabile Dal(ail)ema appena intervistato, il monologo si sviluppa in una serie di battute “affettanti”, breve panoramica del (pessimo) recente vissuto del nostro Paese e delle sue brutture. Per fortuna la profezia Maya non si è avverata, avendo appena pagato l’imu sarebbe stato un peccato se fossero state rase al suolo tutte le case è la morale di Luciana. Dopo Monti che “dice messa” come il Papa e un’immancabile siparietto di critica al sesso maschile riguardo la costruzione di presepi “alla Fuksas” parte l’elencazione dei desideri (un estratto):

Caro Babbo Natale, porta dei bimbi nuovi al panettone Bauli che son sempre gli stessi da vent’anni; porta Berlu qui da noi, visto che è andato ospite dappertutto tranne che a S.O.S. Tata, altrimenti sarebbe finita male; fa ricominciare a mangiare Pannella che così magro e con i capelli lunghi sembra Gandalf del Signore degli Anelli; manda a Renzi la foto del Trota così capisce che anche tra i giovani si trova roba da rottamare; dai un bacio a La Russa e digli che è da parte di Gasparri, così si menano.

Poi la parte più bella: “è già che ci sei dì a Tiziano Ferro che l’amore non è una cosa semplice! (…) La bici senza cambio è una cosa semplice, le torte in scatola della Cameo sono cose semplici, il velcro sulle scarpe è una cosa semplice, L’more no. L’amore è un puttanaio mai più finito, è un guazzabuglio che ci rende prima pirla e felici e, subito dopo pirla e disperati.”

In attesa di scoprire cosa riserberà la letterina di quest’anno, dovrei impegnarmi nel cercare di realizzare che la prossima settimana sarà Natale. Non ci arrivo. Questo preciso momento sembrerebbe una nottata piemontese di giugno se non si facesse caso alle ghirlande appese alle porte delle abitazioni: ventilata, fresca, senza troppe zanzare. Non ci facciamo mancare una pioggerellina e si può godere del canto degli insetti notturni e del suono del vento tra le palme.

Una cosa non è cambiata rispetto alle passate edizioni: partire con l’intenzione di fare regali di Natale e tornare a casa con regali per me stessa. Sono ormai convinta che potremmo essere i migliori Babbi Natale di noi stessi se ci conoscessimo abbastanza bene. E se già ci conosciamo abbastanza bene da sapere cosa vorremmo davvero si realizzasse, perché non scriverci una letterina? Tanto per razionalizzare…chissà che qualcuno non mi raggiunga alle Antille!

Week #28 – parole importanti

Sono le due passate del mattino di giovedì e ho trascorso gli ultimi istanti della serata a cercare un dente in un parcheggio. Torno a casa, stravolta, con la mia “nuova” Clio con la frizione più lunga che si possa immaginare e non esito a fare il check pre-sonno di mail, Skype, Fb e messaggi vari. E mi capita di vedere il post di questo articolo, che comincia con “Le parole sono importanti”.

“Parole importanti” di Richard Scarry era il mio libro preferito da bambina. Credo sia rimasto nella casa di Champoluc in cui andavamo d’estate, insieme al mio fischietto a forma di Albatros (perchè io avessi un fischietto a forma di Albatros resta un mistero). Mi ricordo ancora mia mamma che mi leggeva il libro a partire dalla copertina, dal nome dell’autore per non farmi perdere nessuna informazione, come se impersonasse una sorta di fatina dedita alla sacra preservazione della “cultura del libro”. Non mi ricordo quali fossero le parole importanti, ma quanto era tenero Zigo-zago??? Con la su scarpina da tennis e il cappello da alpino… Poi come al solito ci hanno fatto anche i cartoni animati, che ne hanno rovinato tutta la magina, solo per aver dato una voce ai personaggi.

“Le parole sono importanti, diceva Moretti.”. Verità assoluta. Dopo aver cercato di dissipare un inutile battibecco tra cliente e cassiere in un bar mi sono resa conto di quando ogni parola comunichiamo, il suo peso in relazione alla frase e alla sua costruzione possano essere fondamentali, tanto da poter determinare quasi da subito l’esito di un confronto. Basta l’errore o una scarsa propensione al buon dialogo di uno degli interlocutori ed è inevitabile un prolungamento della discussione piuttosto che il “deragliamento” in polemica, in disputa inutile.

Le parole che usiamo ci descrivono, come le usiamo ancora di più. Ogni sfumatura ha il suo peso. Non mi trovo del tutto d’accordo con la classifica dei riempitivi più utilizzati proposti dall’articolo di Oltreuomo: appoggio le critiche a “Praticamente” e “Onestamente” (gli avverbi che finiscono in “mente” mi infastidiscono in generale). “Quant’altro” e “Nel senso” li trovo ancora accettabili, sono – come dicevo – una sfumatura che permette di aiutare a delineare il profilo del nostro interlocutore. Molto interessante il paragrafo del “Tanta roba”, ci rifletterò mentre ascolto questa. Tanta roba!!!

Week #27 – dalla stalla alle stelle

Dicesi “situazione di stalla” quella in cui – come buoi e mucche – si resta per la maggior parte del tempo con l’espressione un po’ inebetita e malinconica, ruminando come se non ci fosse un domani (e circondati da un sacco di cacca fastidiosa), nell’attesa di venire macellati oppure premiati come Bue Grasso Razza Piemonte 2014.

Periodo d’incertezza, situazione un po’ instabile con molte prospettive, qualche possibilità, tanti impedimenti e alcune delusioni. Ruminare pensieri camminando sulla spiaggia a passo spedito e al ritmo di un mix electropop aiuta a concimare progressivamente l’umore. Endorfine, ma mi piace pensare che sia l’atmosfera a darmi davvero energia: ormai anche le palme sono avvolte dalle luminarie di Natale e nell’ombelico di Maho spicca una sorta di Rockefeller Center Christmas Three Junior. Stranita, non ho la sensazione che stia per arrivare il Natale (è come se mi fossi fermata ad agosto in quanto a stagioni), piuttosto quella che stia per succedere qualcosa di bizzarro o di inaspettato, che forse non sarà un periodo semplice, ma che porterà del buono in ogni caso.

In settimana ho anche scoperto questa canzone, “Happy” ed è diventata come una sorta di colonna sonora quotidiana indispensabile, un po’ come lavarsi i denti mattino, pomeriggio e sera. Ormai mi fido più di Pharrel Williams che di Paolo Fox, nonostante la lettura dell’oroscopo sia un’abitudine consolidata da tempo. Bisogna ammettere che ci ha visto giusto il Paolone nazionale quest’anno, peccato che negli ultimi tempi sembra abbia perso un po’ la bussola, pure lui.

Corsi e ricorsi storici diceva Vico. Questo periodo ogni anno si ripresenta più o meno allo stesso modo: cambiamenti, scelte importanti e situazioni intricate (‘na “botta di culo” MAI), dispendio di energie pazzesco e tutto intorno buona parte del creato si comporta come se stesse per finire il mondo, ma è solo un altro Natale… Il primo, per me, lontano dalla famiglia e dagli affetti.

Mi è venuta voglia di tornare a casa un paio di giorni fa a causa un po’ di malmostaggine incrementata dall’indelicatezza di mio padre nel mostrarmi una scatola piena di tartufi bianchi durante una videochiamata via Skype. Ci andrebbero a nozze con una bagna caoda come si deve…e sarebbe subito Natale! Anche ai Caraibi.

Accecata dalle luci intermittenti appese ai davanzali delle abitazioni spero solo di ritrovare la stella cometa, senza confonderla con un aereo Air France.

Week #26 – a volte ritorno

E’ il titolo del libro che ho appena finito di leggere. Edito da Einaudi, scritto da John Niven giornalista e scrittore scozzese, che non conoscevo. Consigliato da un amico parecchio tempo fa, è rimasto nella mia wishlist di Amazon per mesi, in attesa che si concludesse una sorta di personalissimo “periodo blu” all’insegna dei classici russi (bello, ma ho bisogno di respirare una boccata di scrittura più scorrevole adesso).

Il breve romanzo narra della storia di Gesù Cristo che viene rimandato sulla terra da suo padre (Dio) con il medesimo scopo per il quale era già stato inviato tra gli uomini la prima volta, ovvero diffondere l’unico vero comandamento, o meglio una raccomandazione “Fate i bravi” e a cercare di stemperare una sorta di fanatismo religioso nato da una malsana interpretazione delle sacre scritture e, degenerato proprio nel periodo in cui Dio si stava godendo una meritata vacanza.

Esilarante, coinvolgente, intelligente, critico, “dissacrante e provocatorio” (viene definito da una critica pescata in internet), dal registro “scurrile e con qualche cazzo di troppo” direbbe mia madre affezionatissima al suo “Il Gattopardo”, anche se confesso di aver accusato un po’ di fastidio in questo senso. Ok all’utilizzo delle parolacce in scrittura, talvolta non se ne può fare a meno, ma non quando queste impediscono al lettore di godersi a pieno determinati passaggi, più o meno fondamentali che siano, senza conferirgli alcun valore aggiunto. Dialoghi ben studiati tra i personaggi, impagabile l’ironia che veste quasi ogni situazione, apprezzabile la scorrevolezza del racconto (nonostante la sensazione di aver incontrato qualche “punto morto” tra una scena e l’altra), un po’ sacrificata la descrizione dei personaggi, ma forse per lasciare sfogo all’immaginazione del lettore.

Riporto sotto qualche passaggio più o meno “serio” che ha colpito/divertito non solo me, ma anche altri lettori tanto da evidenziarne e condividerne virtualmente i contenuti. Nota: sia l’autore a livello di stesura del testo, sia Dio in quanto personaggio chiave del romanzo propongono il senso dell’umorismo come “cura” contro il fanatismo cristiano attecchito sulla terra durante il periodo di assenza del Creatore, ma non solo.

“Ecco perché qui sulla terra è andato tutto a puttane. S’era perso il senso della comunità.”

“Mi dia retta, – continua la donna indignata. Di solito “mi dia retta” è un segnale infallibile: stai per ascoltare una marea di cazzate.”

“…se non potevi arrivare al mondo per cambiarlo, allora potevi provare il mondo a cui arrivavi.”

“Dio non disdegna uno spinello di prima mattina, ma a volte si pente del risultato. Gli squali martello? L’ornitorinco? Il culo dei babbuini? Eddài.”

Che ci si trovi sulla sdraio in spiaggia o sotto il piumone in vena di qualche risata (e perché no, anche qualche riflessione), ne consiglio la lettura.

Invito anche – chi ama particolarmente il rock, ma anche chi è “lento” per dirla alla Celentano – ad ascoltare la playlist di Gesù Cristo proposta dall’editore (i pezzi sono effettivamente citati nel romanzo), not bad.

Week #25 – grane

Rammento la coda di immigrati in fila di fronte al portone del commissariato di Corso Monforte a Milano. Mi ci imbattevo ogni volta tra quelle rare mattine in cui riuscivo ad alzarmi a un’ora tale per permettermi di andare in ufficio a piedi e ora quell’immagine la ricordo in maniera differente.

Ho iniziato a darmi da fare per ottenere i vari permessi necessari a risiedere e lavorare regolarmente sull’isola, parte olandese. Una padellata in faccia sarebbe stata più piacevole. Tempi burocratici biblici e millemila scartoffie e procedure in ballo: finchè non richiedi un documento non puoi presentare domanda per ottenerne un altro e così via, per tutto, oltre alle negative implicazioni dovute ai tempi burocratici.

Quando il paradiso si trasforma in un inferno con la sabbia che luccica. Mi vengono in mente per forza di cose i primi frame che introducono la storia in Paradiso Amaro, la voce del doppiatore di George Clooney che recita “I miei amici sul continente credono che solo perché abito alle Hawaii io viva in paradiso. Come fossi in una vacanza permanente. Pensano che qui passiamo il tempo a bere Mai Tai, a ballare l’Hula-Hula e a fare surf. Ma sono pazzi…” e conclude con “…il paradiso può andare a farsi fottere”.

Ecco, se m’immaginate abbronzatissima, in forma strepitosa, a gironzolare per spiagge tutto il giorno, forse ho ecceduto di romanza e di entusiasmo nei precedenti post…

La mia mattinata – dopo aver trascorso una nottata orribile per l’allarme antifurto di un’auto che ha urlato senza sosta e senza che il sordo proprietario della vettura si proccupasse di disattivarlo – è cominciata con la telefonata di un avvocato a cui ho richiesto appuntamento per una consulenza e a distanza di giorni si è finalmente deciso a concedermi mezz’ora del suo tempo (ci ho messo di più a trovare parcheggio a Philipsburg), spillandomi 50 dollari.

Quasi un’ora e mezza per tornare a casa da Simpson Bay dopo essere passata dall’ufficio, tra il traffico abituale e quello creato dai lavori in corso per la manutenzione delle strade (in vista dell’alta stagione ci sono cantieri ovunque!). In un’ora e mezza avrei fatto da Casale a Milano andata e ritorno, da casello a casello. Se non fosse per il panorama di cui ho potuto godere di tanto in tanto avrei tirato giù dalle loro nuvolette cristi e madonne.

Ah, tra l’altro, mentre ero dall’avvocato in sala d’attesa sono stata avvicinata da un omone nero e sorridente con un’espressione del volto buona, ma scaltra se non addirittura subdola allo stesso tempo. Era un predicatore e facendomi l’occhiolino mi ha mollato in mano un suo biglietto da visita su cui – a introdurre le informazioni di contatto – risalta la scritta gialla a caratteri cubitali “Key to Freedom”. E non ero neppure su Candid Camera.

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Sulla strada verso Grand-Case e verso casa.