Week #24 – advertiamoci!

Giorno di colloquio, sono le 10,27. Alzo gli occhi dal computer seduta al mio tavolino della Taste Factory, caffetteria (super) di Simpson Bay (hanno l’Illy, ho detto tutto!). Posto delizioso, pulito e curato, ottima pasticceria, peccato che per un espresso tu debba aspettare in media una mezz’ora. La lentezza dei baristi è inesplicabile, ma per un caffè decente questo e altro. Si potrebbe girare un documentario sui turisti americani e canadesi in coda alla cassa, poi se come sottofondo musicale c’è Bocelli che canta “venite adoremo” il put pourri si fa ancora più fragoroso.

Ah, il mio colloquio è con tale Samantha, proprietaria di un’agenzia di comunicazione ed eventi qui a St. Maarten, alle 11,00. La pubblicità mi ha attirata e accalappiata ancora una volta, temo sia un’idissolubile sposalizio, anzi no, un pacs.

Presa, ho iniziato ieri.

Dopo aver passato il week end febbricitante (un po’ perché avevo davvero la febbre che spero non ricompaia, un po’ a causa del mio stato di esaltazione per l’arrivo di Ro a St. Martin), facendo babysitting al figlio del diavolo per un numero di ore che mi sono sembrate infinite, il lunedì mattina la sveglia suona alle 7. Sono stanca, ma tutto sommato rilassata. Salto in macchina (come sempre in ritardo rispetto alla tabella di marcia che avevo premeditato) e ovviamente, arrivata a Marigot, resto bloccata nel traffico. Non sono una cattolica praticante, ma dopo dieci minuti in coda ho pregato.

Riesco ad arrivare in ufficio, al Puerta del Sol Plaza (che è un normalissimo palazzo moderno nonostante l’appellativo overpromise), spaccando il minuto.

Alle 12,30 la mia testa è già congestionata d’informazioni, il mio Mac non ha quasi più batteria carica nonostante stamattina fosse al 100% e il Burger King di fronte all’ufficio mi sta invitando a scofanarmi panino e patatite.

Resoconto del primo giorno: ho lavoro a sufficienza per passare la serata rispolverando brief, progress e query da proporre ai clienti che possono sempre tornare utili, una deadline parecchio vicina rispetto agli obiettivi da raggiungere (anche qui tutto è da realizzare entro ieri ma senza impanicarsi, belli sereni), mille connesse situazioni burocratiche da sbrigare e il panino del BK (come quello del McDonald’s di Corso XXII Marzo) lo digerirò tra un paio di giorni.

A cena mi sono cucinata una frittatina con i porri, così il mio colesterolo può tenere compagnia al mio ego “alle stelle”. Alè.

Immagine

Week #23 – torno a casa dal lavoro e trovo

questo scritto in allegato di posta su Facebook. Avevo chiesto a mia sorella di scrivermi un pezzo per il blog che raccontasse della sua recente vacanza a St. Martin. Mi piace l’idea di riportare testimonianze di terze persone che approdano sull’isola a “causa” mia (Ro preparati). Forse un po’ di parte per amore, parentela… ma ecco il primo “turist post”:

St Maarten, aereoporto Princess Juliana,  ora locale 8.10AM. 

Volo 1369 to Miami. 

Seduta al 24B, abbronzatura rossiccia e obbligatorio  bracciale souvenir del posto, una ragazza è appena stata violentemente cazziata dal passeggero vicino per aver usato il cellulare al momento del decollo. Non emette suoni, ma un fiume di lacrime continua a rigarle il viso; stringere in mano la sua borsa come un bimbo fa con il suo orso di peluche: palese crisi da rientro. Non si sa mai cosa aspettarsi prima di affrontare un viaggio, ma se al ritorno scende qualche goccia di pianto è segno che il soggiorno ha superato ogni aspettativa. Ah, il passeggero seduto al 24B sono io. 

16 ottobre 2013, 21 anni appena compiuti, 3 aerei da prendere, 7200 km e 18 ore di viaggio davanti. Alcune volte i numeri spaventano, ma sono solo un misero dettaglio per raggiungere l’obiettivo finale. Il mio obiettivo? Ricevere un abbraccio da un’abbronzata fanciulla di 1 metro e 80, divenuta ormai una “local” a tutti gli effetti in quel di St Marteen.

Sono tornata da una settimana e mi ostino a non abituarmi alla nebbia monferrina e alla routine torinese: continuo a vivere “sei ore indietro” scambiando il giorno per la notte. Mi manca il profumo di mare, la sabbia calda sotto i piedi, l’acqua limpidissima, mi manca stupirmi guardando pesci che mi nuotano in torno alle gambe, mi manca il moijto frozen di Pinel, il nostro tavolino sul balcone imbandito a colazione, con tanto di conchiglia gigante come centro tavola; mi manca la (ormai mia) poltroncina di vimini rosa, il rimanere stupita e senza parole davanti ad ogni cosa, cenare al Calmos Cafè con la spiaggia illuminata solo da lanterne, Palm Beach e Pina Colada a metà mattina, guardare gli aerei che decollano al Sunset, i tetti coloratissimi e le staccionate dalle sfumature più improbabili, mi manca Radio Transat e la mia fortuna nel beccare sempre la canzone giusta, passare il tempo al casinò quando fuori diluvia, il venticello dello Sky bar, le mille risate e la compagnia sempre eccellente!! Mi mancano addirittura i salti in macchina causati dalle mille fosse della strada, le banane “selvagge” e urlare schifata quando le iguana mi tagliano la strada (detto questo, detto tutto)!!

Chiudo gli occhi e…rieccomi lì…

Sorseggio l’ennesimo drink di “bienvenue”,sono seduta ad Orient bay, la spiaggia (che preferisco chiamare “paradiso” per render meglio l’idea) ad un passo da casa. Nonostante le cuffie nelle orecchie e la musica a palla sono il vento e le onde che si increspano a creare il sottofondo musicale; sono immersa nella pace più assoluta. La spiaggia prosegue accanto a me a perdita d’occhio, il vento muove le palme e spinge lontano le nuvole che in questo momento stanno coprendo il sole; ha spinto in mare gli appassionati di kite surf e vela, uno spettacolo da seguire con lo sguardo mentre spariscono tra un onda e l’altra. Ciò che provo è la più assoluta, genuina e serena pace interiore.

Prima di partire confesso al mio migliore amico il timore di non sapere cos’aspettarmi da questa vacanza; io e Fede non abbiamo mai trascorso una vacanza da sole, un po’ perché non ne abbiamo mai avuto l’occasione, un po’ perché la differenza di età e di carattere per molto tempo si sono fatti sentire. “Vedila così: è la vostra occasione per conoscervi meglio”, e con il sorriso sulle labbra devo ammettere che Gian ha avuto proprio ragione. In fin dei conti queste due Ravizza non sono così diverse… Amiamo la compagnia, ma abbiamo bisogno dei nostri spazi e dei nostri momenti di solitudine. Siamo folli, ma solo chi ci conosce bene lo sa. Non ci fermiamo davanti agli ostacoli e ogni novità è per noi uno stimolo e fonte di curiosità. Talvolta, stupendo anche noi stesse, siamo estremamente sentimentali. Da buona mamma premurosa Fede mi ricorda di mettere la crema, mi fa prendere le vitamine al mattino, si preoccupa che non mi annoi o che sparisca, si diletta in cucina, mi porta nelle spiagge migliori, mi fa provare i cibi più squisiti e le bevande imperdibili (grande Planton, o come si chiama). Da splendida sorella fa sì che i miei giorni a St Martin si tramutino nella vacanza più bella ch’io abbia mai fatto. Divertimento, relax, riflessione…non mi è mancato nulla, e la sua vicinanza ed il suo affetto hanno reso tutto semplicemente perfetto.

Ho scoperto solo il giorno prima di ripartire che St Maarten viene chiamata “the friendly island” (la scritta è addirittura riportata sulle targhe delle macchine locali!), e dopo soli 10 giorni posso confermare che non vi è nomignolo più azzeccato. 

Essere a st martin e sentirsi a casa. Sarà perché l’isola è piccola e la si scopre velocemente, sarà l’amichevole atteggiamento di chi conosci, che pare davvero felice che tu sia sulla sua isola e non aspetta altro che l’occasione di darti il suo benvenuto; sarà la sensazione di pace spensieratezza che si prova ammirando il mare verso l’orizzonte, il sole che regala uno spettacolo di colori illuminando l’acqua cristallina ed il verde intorno. Non avevo ancora messo piede sull’aereo e già fantasticavo sul quando avrei potuto tornare in questo scoglio in mezzo al mare, dove non vi è troppa differenza tra sogno e realtà.

Hai sorpreso tutti con la tua folle ed improvvisa partenza, ma soprattutto hai dimostrato per l’ennesima volta la tua grinta e determinazione. Ti sei lanciata a capofitto in un gioco senza troppe regole, tu, così equilibrata e rigorosa. Com’è giusto che sia, l’isola ti ha cambiata, ed indubbiamente in positivo: hai un nuovo sorriso che non può che allievare la malinconia che proviamo a causa della distanza che vi è fra noi. Sei sempre stata per me un punto di riferimento, l’esempio da seguire, ora sei stata promossa a mio nuovo idolo! Osservare la tua nuova vita sull’isola mi ha fatto riflettere molto sul mio futuro, mi dai il coraggio di azzardare e di seguire i miei sogni non cercando di percorrere la strada sicura e senza difficoltà, ma rincorrendo i propri desideri anche a costo di far salti mortali per raggiungerli. Sono, anzi, siamo sempre più fieri di te; hai iniziato a mostrare la tua creatività e originalità dipingendo girasoli in corridoio, continui a farlo arricchendo te stessa attraverso le nuove avventure che stai vivendo. Non mollare mai, fiera e orgogliosa…

Ti voglio bene.

Week #22 – week #22?

Credo di essermi persa nel mio stesso sistema di conteggio delle settimane e del tempo in generale, ma so che tra un paio di giorni compirò 5 mesi sull’isola. Tanto tempo, ma troppo poco.

Sono le 3 del mattino e sento mia sorella fare lo spelling della password del suo pc a mia mamma che dall’altro lato del telefono si lamenta per non essere riuscita a recepirla correttamente nemmeno al terzo tentativo: “una più complicata no?!”. Scene da…preparazione bagagli.

Ho il magone solo all’idea di dover accompagnare Ceci all’aeroporto domani. Dieci giorni sono troppo pochi per riuscire a vedere tutto, per riuscire a far vivere a una persona St. Martin e St. Maarten, almeno come avrei voluto, come la vivo io. Sono troppo pochi anche per riuscire a ritrovarsi del tutto, come prima, com’eravamo abituate a casa: a vederci sempre, o comunque spesso e a considerarci “complementari”. Credo che la distanza ci abbia anche indotte a diluire questa complementarietà, assorbendo reciprocamente qualcosa l’una dell’altra: io sono tornata a frequentare discoteche, mia sorella – da buona studentessa di architettura – mi parla “tetti con numerose falde inclinati in maniera differente e bizzarra” guardando le abitazioni con la mia stessa ironica spocchia.

La sua vacanza si conclude a casa dei nostri amici italo-olandesi con una cena a buffet, chiacchiere e perle: Manuel nell’illustrarci la sua personalissima teoria secondo la quale consumare troppi alcolici impedisce il mantenimento dell’abbronzatura, perdendosi – credo – in una traduzione letterale dall’olandese all’italiano se ne esce con “l’alcool sbronza”. Non fa una piega, teoria appuratissima.

Facciamo volentieri un giro allo Sky dopo cena, per un ultimo saluto e con l’intenzione di tornare a casa presto. Usciamo dal Tantra, una discoteca di Maho alle 2 passate, con articolo da scrivere (io) e valigia da fare (mia sorella). Disgraziate!

La sveglia è alle 6. Dopo 2 ore e qualche minuto di sonno, sulla strada per l’aeroporto e con la luce del primo mattino ho rischiato i tirare sotto un paio di tizi che facevano jogging (anche carini, sarebbe stato un peccato).

Inutile dire che l’arrivederci all’aeroporto è stato difficilissimo. Alle 7,35 ero sulla spiaggia di Mullet Bay a fringnare ancora con una Diet Coke in mano, cercando di svegliarmi e di combattere la sete. Alle 7,45 a Sandy Ground un “lou-lou” sta già grigliando sul ciglio della strada delle cosce di pollo. Sono ancora stordita dal sonno e percepisco un’altra atmosfera nelle zone dell’isola che sto attraversando e che sono abituata a frequentare in altri orari. Vado a Concordia, quartiere di Marigot alla ricerca della posta centrale, per recuperare un pacco mai ricevuto a casa e che sarebbe già dovuto arrivare. Scopro che il sabato aprono più tardi del solito, alle 9. È destino che vada a consolarmi e fare passare il tempo da Serafina’s coccolandomi con un croissant. Cacchio, già alle 8,15 le vetrine di questo posto fanno venire un attacco di diabete: tra macarons, torte, brioches, pasticcini, tralasciando il reparto pane, panini e annessi, non c’è scampo è come se ti dicessero “Mangiami! Mangiamiii!”. Il tizio davanti a me in coda prende una fetta di chesse cake: ottima idea. Non riesco a pronunciare “succo di frutta” per completare l’ordinazione, in nessuna lingua, ho il cervello che funziona come un motore a scoppio, ma fortunatamente la commessa capisce al volo i miei gesti.

Cecilia sarà ormai decollata. Mi sento di colpo sola. Dal mio telefono – il cui schermo si è frantumato ieri sera per la seconda volta – sono misteriosamente sparite delle applicazioni e mi aspettano 9 ore di babysitting a un animale selvatico. Tristezza…

Week #21 – sorellame

Tre giorni fa mia sorella è atterrata a St. Maarten. L’ho attesa per più di un’ora, trepidante, agli arrivi. L’ho vista attraverso il vetro acidato che separa la zona di recupero dei bagagli dall’uscita camminare avanti e indietro ansiosamente. Ho capito subito che il suo bagaglio doveva aver preso un’altra destinazione. Al telefono mi da conferma e ben tre miei “porca troia” quasi consecutivi fanno eco scontrandosi con l’alto soffitto che sormonta la zona degli arrivi del Princess Juliana, urtando i timpani delle sole altre due persone presenti in quell’ala dell’aeroporto, a quell’ora: una tizia della security e quella del punto informazioni.

Saliamo in macchina con la contentezza per l’esserci rincontrate un po’ guastata dalla sparizione della valigia (con dentro buona parte del mio guardaroba estivo) e inizio a trasferire a Ceci le ultime novità o ad approfondire quelle vecchie, interrotte dalla voce della seconda me in versione “accompagnatore turistico”. Credo di non aver mai parlato tanto in vita mia, in una sola mezz’ora. Ed ero talmente emozionata quando le ho portato a tavola una fetta di torta al lampone e cioccolato bianco con guarnizione di macarons (una bomba!!) di Serafina’s, da non essere riuscita a far funzionare quella maledettissima candelina che intona il motivo di Happy Birthday (sì, ho anch’io un recondito lato trash). Troppo impaziente, le istruzioni sono riuscita a metabolizzarle solo dopo il primo boccone di torta.

L’ansia da prestazione mi distrugge: “dunque potremmo fare questo, poi quest’altro, domani invece questo… Ma le piacerà quest’isola?”. In veste di sorelle maggiori ci si sente sempre responsabili dei fratelli/sorelle minori, per natura credo. E molto spesso il più duro compito è cercare di renderli – se non felici – soddisfatti e riconoscenti.

Alla fine ho optato per una terapia di adattamento drastica, quella del “facciamola bere e questo posto diventerà subito il paradiso”. La giornata parte con una pinacolada a Palm Beach alle 11,30 dopo una passeggiata lungo tutta la Baia Orientale. La sera, essendo giovedì, non poteva non trascorrersi al Calmos Café: solita serata Salsa in compagnia di due amici parigini (la cui imitazione degli americani in spiaggia è esilarante), che si conclude alle 24,00 circa con il Planteur della staffa. Ciò che i nostri fegati hanno filtrato durante questo arco di tempo è un dettaglio non pubblicabile.

I nostri commensali, a cena, ci invitano a trascorrere la giornata successiva insieme a loro a Pinel e accettiamo volentieri. Ho la conferma che anche mia sorella può vantare di possedere più melanina di me: l’unica che riesce ad abbronzarsi, senza troppo arrossarsi al secondo giorno di Caraibi e senza una protezione – a mio avviso – abbastanza elevata. Fastidio…

La sera con Manuel (il nostro amichetto d’infanzia olandese arrivato la mattina), raggiungiamo Chris (lo skipper, rientrato qualche giorno fa da Cannes) allo Sky (terrazza con sabbia in cima a un palazzo nel cuore di Maho. Bel locale, non lo conoscevo. Ci penso ancora, mentre Cecilia è collassata nel letto da una mezz’ora dopo aver dichiarato “no, no, non dormo, controllo solo il cellulare”. La raggiungo, ma senza controllare il cellulare: crollo all’istante.

Immagine

Sky Lounge

Week #20 – accueil

Sentire pronunciare questa parola mi fa venire ancora i brividi. Anni fa, un’estate, andai a lavorare in un villaggio vacanze in Sicilia. L’incubo di tutto lo staff di animazione era proprio il giorno dell’accueil, ovvero il sabato mattina quando arrivavano i nuovi ospiti e dovevamo essere vestiti di tutto punto e schierati all’ingresso alle 8,30 del mattino nonostante fossimo rientrati dalle prove per lo spettacolo teatrale del week end alle 4 (spesso per bighellonare nei corridoi degli alloggi del personale fino alle 6).

Il résidence di Mont Vernon assomiglia un po’ a un villaggio vacanze, non solo perché essendo un vecchio hotel sulla spiaggia trasformato in condominio ne ricorda la struttura e le fattezze, ma perché la vita, i rapporti, gli atteggiamenti delle persone che lo popolano sono quelli che si possono riscontrare chiacchierando con il vacanziero vicino di bungalow mentre si osserva l’orizzonte della baia di Palinuro durante una sera di agosto.

Questo piccolo villaggio aggrappato su una collinetta, cola sulla spiaggia in una serie di caseggiati apparentemente disposti senza criterio e in uno stillicidio di terrazzini dalle ringhiere in legno rosa e azzurre. Ogni caseggiato ha il nome di un’isola delle Antille, io sono finita al St. John come Sara e Alex, coppia di deliziosi fidanzatini parigini che stanno trascorrendo le vacanze qualche porta più in là della mia e che ho conosciuto ieri sera a casa di Philippe, quest’ultimo conosciuto a sua volta a La Playa il giorno del mio compleanno perché amico di J.R. (il barista), che vive anche lui qui, al Saba se non erro…e potrei andare avanti fino ad arrivare al piscinista del mio ex vicino di casa che ho incrociato uscendo di casa una mattina.

La sera non ci si riunisce tutti a cena nel salone centrale (che è stato adibito a parcheggio coperto dopo lo smantellamento dell’hotel), ma ci si ritrova a casa di qualcuno ove si è arrivati per essersi incontrati lungo il vialetto rientrando dalla spiaggia, improvvisando aperitivi che prendono consistenza a forza di chiacchiere, ascoltando buona musica. Poi se al padrone di casa si va a portare il blister di paracetamolo richiesto e a domandare in cambio il ferro da stiro in prestito, si finisce per unirsi al gruppo. E l’aperitivo diventa cena.

Parlando con Alex, che pare essere un ex Dj, salta fuori che i Gotam Project abbiano realizzato una propria versione del Libertango di Piazzola. Non ne sono convinta e do sfogo alla mia arroganza sostenendo l’impossibilità che il gruppo abbia violato un pezzo così sacro della sfera del tango argentino lavorando di mixer.

La pacchia finisce quando la vicina, verso le 11 minaccia di chiamare la security per il vociare proveniente dal terrazzino che le impedisce di addormentarsi. Era talmente contrariata e infastidita che sarebbe stata capace di chiedere all’agente della security di arrestarci, nonostante il tono delle nostre voci non superasse i decibel di una tv accesa a volume più che accettabile. Guastafeste!

Giunge inevitabilmente il momento della buonanotte, ma senza troppo dispiacere: si sa che, se non il giorno successivo quello seguente, si ripeterà senza troppi sforzi organizzativi la stessa serata.

Prima di andare a coricarmi devo togliermi il dubbio: è così, i Gotan Project hanno davvero avuto il coraggio irriverente di rilavorare il Libertando di Piazzola. No way!

Immagine

Mont Vernon visto dalla spaggia di BO.

Week #19 – segni

Ero in quinta liceo quando il mio professore di lettere, un giorno, mi chiese: “Credi nei segni? È importante credere nei segni, da capire, ma importante.”, o qualcosa del genere con il medesimo significato e intenzione, mentre si rollava una sigaretta di tabacco. Non ricordo quale marca di tabacco, ma aveva un aroma molto forte e mi sembra che la confezione fosse blu e arancione. Ricordo che non risposi alla domanda.

Nel periodo in cui ebbi l’idea di un “viaggetto” ai Caraibi, smanettando con Spotify incappai nei Temper Trap, precisamente in “Sweet Disposition” che conoscevo ma avevo rimosso… Notai anche la sponsorizzazione del loro ultimo album (che qui chiamano albùm e mi fa incazzare da morire – sono in fissa con il latino, temo) e tra le canzoni, a colpirmi particolarmente “This Isn’t Happiness” e “The Sea Is Calling”.

Parrallelamente crebbe la mia esaltazione per quest’album: “Tourist History” dei Two Door Cinema Club”.

Durante una serata sanmartinese (della quale credo di aver già raccontato) creai un piccolo ciclone casalingo durante il lavaggio della vaselleria guadagnando il soprannome di “Tsunami”. Un paio di giorni dopo scaricai l’album “Bistro Fada” di Stephane Wrembel che includeva il pezzo “Tsunami”.

Ora, può esistere una connessione così forte tra realtà, inconscio e musica (non necessariamente nella stessa posizione) e ammesso che siano questi gli elementi in ballo? O è semplicemente “il caso”? Capita anche con i film? O con i libri? Con questi ultimi mi piacerebbe, capitasse.

Quando ero bambina, non esisteva altro Dio all’infuori di me forchè Barbie, ma solo lei, niente sorelle, amiche, fidanzati (perché non venite a raccontarmi che ne avesse solo uno!). Sempre la stessa, bionda, solo una era più abbronzata delle altre. Lei e la punta di diamante della Barbie’s Real Estate: la casa con la terrazza e l’ascensore. E’ durata integra, perfetta e settimanalmente spolverata per un anno, non di più: mia sorella si è seduta sulla terrazza appena ha cominciato a camminare e non era leggera.

Questa estate, vent’anni dopo, sono uscita con un tizio che assomigliava terribilmente a Ken.

Un paio di settimane fa ho visitato uno studio in affitto, interessante e ho inviato il link dell’agenzia immobiliare a mia sorella per mostrarle la photogallery, mentre eravamo in chat:.

– “Ho deciso di prendere in affitto l’appartamento che ho visitato oggi. Ho fretta e sono stufa di vedere tuguri malconci, così ho optato per questo studio a Mont Vernon, il più “civile” che ho visto fin ora. Mi ci vedi in mezzo a tutto quel rosa? Appena entrata ho avuto un attacco di nausea.”

– “Ma no, dai…dopo qualche giorno ci si abitua a vivere nella casa della Barbie.”.

Geniale. Ho fatto i bagagli e mi ci sono trasferita a inizio di questa settimana.

M’inchino un’ennesima volta a Freud in questo ultimo caso, ma per il resto tutte le bizzare connessioni che percepiamo, realizziamo e che nel momento in cui vengono a galla disegnano sul nostro viso una smorfia che potremmo tradurre in “sono pazzo o mi sono perso qualcosa?”, vogliamo chiamarle “coincidenze”? Le coincidenze sono “one shot”, come definire invece una serie di eventi, di situazioni, di…cose preannunciate da altre (passate) beffandosi della nostra consapevolezza?

Li definirei banalmente “segni”: alcuni non sono così significativi da essere avvertiti, altri al contrario troppo pesanti, intrisi di significato e generatori di emozioni da non riuscire a capacitarsene, tanto da pensare – pur possedendo un potente superego – di essere parte di un piano soprannaturale.

Prof., dal giorno di quell’interrogazione ho iniziato a fare attenzione e a credere nei segni.

Week #18 – la smetto con i titoli in latino

Promesso.

Oggi, miei cari ospiti parliamo di approcci, etero.

Caso 1.  Obiettivo: graziosa signorina castana, intorno ai 30 anni, abbronzata, dalla provenienza non facilmente identificabile, in costume e occhiali – lenti fotocromatiche: la bruttezza del nome, non propriamente sexy, corrisponde esattamente all’effetto donato al viso che porta tale montatura, ma c’è chi ama il macabro. Luogo: bar della spiaggia, pomeriggio. Soggetto: uomo sui 40, anonimo, ma indubbiamente francese, discretamente fisicato, in orripilante mutanda nera. Azione: offrire un’Orangina ordinata al barista dall’Obiettivo allo scopo di procedere con le presentazioni o almeno una breve parentesi meteo. Reazione dell’Obiettivo: ringraziare e congedarsi, non abbastanza in fretta dal restare intrappolata in una conversazione da ascensore bloccato, per mezz’ora. Sviluppo: era convinto che dall’accento fossi russa, mi ha chiesto se volevo andare a rinfrescarmi con lui in mare e ho risposto “no grazie, sto bene così” mentre stavo sudando come un’animale da soma su un Tolstoj; prima di andarsene mi ha buttato in borsa un biglietto con nome e numero di telefono, approfittando della mia assenza mentale pinzata da un casco a volume – come sempre – troppo elevato.

Caso 2.  Obiettivo: graziosa signorina castana, tra i 25 e i 30 anni, abbronzata, italiana, shorts e canotta bianchi, lungo gilet di lino blu, in vena di divertirsi. Luogo: bar sulla spiaggia, festa con dj, domenica sera. Soggetto: uomo di poco più di trent’anni, haitiano, alto, faccia da pirla ma buona, un mix tra 5 Cent e Jay-Z, ciabatta Nike con calzino bianco di spugna d’ordinanza.  Azione: avvicinarsi all’Obiettivo, strusciarsi nonostante tu ti allontani e chiedere se può baciarti. Reazione dell’Obiettivo: “no grazie, preferirei di no, ma apprezzo il pensiero.”. Mia nonna avrebbe saputo fare di meglio. Sviluppo: difficile capire se abbia attutito o meno il colpo; lo ritrovi ovunque e ti fa un sacco di domande “pour parler”, ogni volta, mentre tu fingi di non capire un po’ meno di quello che in realtà non capisci affatto.

Caso 3.  Obiettivo: graziosa signorina castana, trentenne, abbronzata, dalla provenienza non facilmente identificabile, lungo vestito a fiori verde acido, in vena di pr. Luogo: bar sulla spiaggia, festa con dj, altra domenica sera. Soggetto: uomo intorno ai 40, antillese, distinto ma rilassato, brizzolato. Azione: attaccare bottone e toccare di continuo il braccio dell’Obiettivo per assicurarsi che non scappi, finché non fingi di dover andare ad aiutare un’amica che ha bevuto troppo e ti precipiti a tirare su un’ubriaca a caso. Tentativo di riapprocciarsi qualche minuto dopo, danzando e ordinandomi un Planteur. Reazione dell’Obiettivo: ringraziare e guarda caso mi scappa una pipì pazzesca. Sviluppo: il Planteur era il quarto e ho fatto l’unica cosa che non si dovrebbe fare MAI. La mattina dopo alle 10 era lui, a chiamarmi per darmi il buongiorno. Inutile dire che non l’ho riconosciuto, ci ho messo un po’ a capire chi fosse e mi sono maledetta per l’intera giornata per avergli dato il mio numero di telefono.

Scrollo le spalle, sospiro e resta il fatto che è maggiore la percentuale di possibilità che un Matthew McConaughey con il fascino intellettuale di Ferruccio De Bortoli si presenti un giorno alla mia porta, piuttosto che quella di riuscire a “subire” un tentativo di approccio creativo, attento e intelligente da parte di un individuo di sesso maschile con la fedina penale e psichiatrica pulita. Almeno su quest’isola.

Week #17 – in vino felicitas?

A St. Martin non fanno la Festa dell’Uva, ma a Casale Monferrato sì e quest’anno la salterò, un po’ a malincuore. Mio cugino Sandro, già una quindicina di giorni fa mi domandò “torni un paio di giorni per la festa del vino, vero?”, come se fosse normale spendere più di 1000€ di volo e farsi un viaggio di una dozzina d’ore per partecipare all’evento, imperdibile per molti. Non escludo che esista chi si farebbe 8.000 km pur di mangiarsi un bollito misto e degli agnolotti d’asino innaffiati da Barbera monferrino.

I tavoli e le panche tappezzano il Mercato Pavia, sotto i tendoni bianchi, gli stand delle proloco con le specialità (comuni pressoché a tutte, ma democraticamente e attentamente assegnate), quelli dei viticoltori nascosti dietro barricate di vertro color “rubino incazzato”, il palco con la band che attacca con la prima nota e inizia a piovere. Il brusio di un formicaio di odori (e sudori) che si mischiano. E divertente, con spirito rilassato e giusta compagnia, parecchio divertente.

Qui: “Ben atterrati su Marte. Viaggio tra i superstiti di The Day After Tomorrow 3. L’atollo e Atlantide.”. Sarebbe un bel documentario… Quasi si potrebbero contare le chiappe dei presenti, isolani e di qualche folle turista che ha deciso di sfidare l’ira delle tropical storm e viaggiare a prezzi “illegalmente” stracciati.

Oggi ho avuto modo di imbattermi in due sfortunati esemplari di quest’ultimo paniere. Coppia di alsaziani entrambi 25enni che Arnaud ramazza in spiaggia, chiacchierando, mentre io sono sul lettino in trance da Astor Piazzolla ignorando il resto del mondo. Decidono per un aperitivo a Oyster Pond. Io sono Ambrogia. Wisky e cola per tutti, io la mia Presidente. Non ricordo il nome dell’ologrammico fidanzato del quale credo di aver percepito non più di un paio di grugniti e tre ginocchiate al tavolo per sbadataggine. Ricordo quello di lei, che non ha comunque importanza. Ricordo che si è tuffata nella Marina tra le alghe e i catamarani e, che si è intossicata di alcool. Nessun moralismo sul consumo di alcolici, ma fino a oggi non avevo mai visto nessuno così giovane bere con tale disperazione, con un peso, come un’incudine legata alla schiena e il corpo coperto di psoriasi. Non so cosa la aspetti, l’ho lasciata all’hotel e non la rivedrò più. Confesso che non mi preme nemmeno così tanto, quello che mi chiedo è fino a che punto, quali avvisaglie attendiamo prima di accorgerci che stiamo per scoppiare?? Bisogna cercare di resistere fino a che punto? Mi interrogo ancora, a volte, sul fatto di aver intrapreso questa esperienza troppo presto o troppo tardi. Interrogazione anche un po’ inutile a questo punto…

Credo di non essere mai stata così serena in vita mia, manco alla scuola materna, anche se arebbe stato tutto più semplice oggi, se fossi stata alla festa del vino, se la felicità si potesse misurare con l’applausometro e se non ci fosse il plenilunio, meledetto plenilunio.

Postilla: questo post è stato rivoluzionato in 10 minuti (ok, forse una mezz’ora) prima della pubblicazione nonostante fosse redatto da giorni, causa una pessima, caleidoscopica serata.

Week #16 – in omnia paratus

Ogni tanto ho l’impressione di avere la scritta “pronta a tutto” tatuata sulla fronte con un inchiostro che solo gli altri possono leggere e che io invece non vedo. Ho anche la sensazione che il messaggio venga interpretato nel modo peggiore, ovvero “puoi rompermi le palle”, senza limiti di discrezione, tempo…intensamente e a oltranza.

Ormai credo che più cerchi di evitare problemi (relazionali o di altro genere) tentando di risultare corretto e affidabile, assumendo un comportamento onesto e disponibile più incontri ostacoli, in carne ossa (e forse anche cervello per quanto malato possa essere).

Sembra una condanna, non se ne sfugge. Finisce per non avere importanza un rapporto ben costruito e rispettoso. Un accordo precedentemente stretto (magari anche riportato nero su bianco), la stretta di mano reale o virtuale che dovrebbe regolare un alleanza – sia essa commerciale, lavorativa, tra pari – ha perso valore, almeno nelle mie case history.

Provvedere alla propria “sopravvivenza” e agire a favore dei propri interessi prevale a discapito delle parti coinvolte, nel momento in cui una situazione diventa critica. È in parte una reazione naturale, certo, ma da amministrare in quanto homo sapiens sapiens (a meno che non ci sia stata una forte involuzione della civiltà e io non me ne sia accorta!).

L’incapacità di molte persone nel gestire gli eventi anche in circostanze elementari, comuni, quotidiane continua a genarmi, nonostante esperienze passate mi abbiano già dato prova del fenomeno. Non mi reputo immacolata, non lo sono, errori di comportamento vengono commessi spesso, soprattutto se influenzati da un carattere poco docile. Stress, cattive abitudini, infelicità, irrequietezza, il carattere soggettivo che ci appartiene e che trasponiamo nella concezione di ciò che ci circonda portano sovente a fare scelte sbagliate, anche semplici gaffe, per mancanza di lucidità e di obiettività.

È necessario uno sforzo di comprensione, sforzo che in buona parte dei casi si rivela inutile. Per quanto si possa tentare di mantenere una condotta inattaccabile bisogna essere pronti a lottare contro i mulini a vento. Fanno paura, a volte, i mulini a vento: non li si riconosce e si fatica a interpretarli. Sono mulini a vento marziani che si scontrano con una coscienza terrena.

Arriva dunque il momento rimboccarsi le maniche, cercare d’illustrare – in estremis a gesti – il proprio punto di vista, le proprie ragioni e motivazioni. Come spiegare a un cliente che “sviluppare una pagina web in html non è come fare il pane!”, ma è un lavoro che richiede imprescindibili tempistiche tecniche e che queste non corrispondono a “tra un’ora” (perle dal passato). Far notare a una persona con la quale hai un accordo o un contratto stipulato in precedenza, che non sta mantenendo la parola data (nonostante verbalizzata), che non sta rispettando le linee guida prestabilite a quattro mani, può diventare un vero scontro tra titani. E quando il tuo interlocutore non comprende – o peggio finge di non capire – si cerca una via di uscita che non implichi ulteriori contrasti, cercando il più possibile di utilizzare un linguaggio accessibile.

Si raggiunge l’apoteosi quando la controparte cerca di fotterti, tu gli spieghi di aver compreso il “tranello” e questa ribatte fino alla morte insabbiandosi a palate di scuse una più instabile dell’altra. Qui, io getto la spugna, la mia tolleranza ha un limite e la mia intelligenza (del tutto nella norma, nulla di eccezionale) verrebbe offesa da una sola parola in più pronunciata a sproposito.

Cerco sempre di trovare una soluzione, la migliore per me e che possa trovare un riscontro positivo anche nel mio interlocutore durante un confronto, ci provo. Magari ne trovo più di una che possa soddisfare entrambe le parti. Può succedere però che la controparte ostinata e decisa a far valere la propria versione non si degni nemmeno di trovare un escamotage, oltre a non accettare compromessi. Causa persa…si può solo tentare di salvare il salvabile.

Poi c’è la razza (pessima e che non si estinguerà mai purtroppo) di quelli che “si mettono in mezzo” per sfamare la propria perversione d’indossare la tutina da Superpaciere, pur non c’entrando nulla, pur essendo esterni ed estranei alla controversia e inconsapevolmente incapaci di portare tale veste. Inevitabile che creino solo scompiglio e ulteriori incazzature (senza escludere l’istigazione di manie omicide, in alcuni casi).

Sono tentata di farmi stampare una t-shirt con scritto “In omnia paratus” davanti e “ma non alle rotture di coglioni” sulla schiena.

Ah, dimenticavo…come il saluto, un vaffanculo non si nega mai a nessuno.

(Mi sono accorta troppo tardi di aver “rubato” il titolo del post a FarOVale. Chiedo perdono!)

Week #15 – voglie

Ne ho una sulla mano che si estende per quasi tutto il dorso (dita escluse). Non ha una forma, o forse non ho mai avuto un episodio di pareidolia. Mi dicono che mia nonna ne avesse una uguale, o molto simile. Me la ricordo poco, mia nonna e la sua macchia sulla mano. Quando si è in eremo e senza grossi impegni, si ha anche il tempo – molto – di ricordare.

Vedere foto di vacanze in montagna su Facebook me ne fa venire voglia (sarà che qui nemmeno il climatizzatore acceso tutto il giorno è sufficiente a trovare un po’ di sollievo in questi giorni caldi, grigi e umidissimi), ma non tanto la montagna d’estate, quella d’inverno fredda e innevata. Avrei voglia di pizzoccheri, canederli in brodo e polenta concia. Avrei voglia di riprendere (finalmente!) a sciare e soprattutto mi piacerebbe trascorrere un altro capodanno come l’ultimo, a Bormio. Provare un freddo secco e intenso mi farebbe apprezzare ancora di più la scelta di essere fuggita ai Caraibi, credo.

Questa estate – che per me è iniziata a maggio e non finirà, per quanto non riesca ancora a capacitarmene – anche questa, ho dovuto fare a meno di una cosa: il Festivalbar. Succede tutti gli anni in questo periodo: mi spiace non poterlo vedere. L’abitudine di passare le serate estive davanti alla tv a cantare come una pazza – dovendo puntualmente litigare con mio padre per il monopolio del telecomando – non riesco a togliermela. Sì, mi manca il Festivalbar! Ho impressa, come se l’avessi memorizzata ieri Sophie Ellis Bextor che canta “Murder on the dance floor” con un ombretto verde mela accesissimo e un impeccabile tubino nero (ricordo bene?). Quelli con Fiorello e la Marcuzzi sono stati i migliori, peccato non lo facciano più…

Ho voglia di sushi, terribilmente. Incrocio mezzo orentale in spiaggia e mi viene voglia di sushi. Mi basterebbe un “all you can eat” comme il faut per togliermi lo sfizio per i prossimi 3 mesi. Anzi, meglio ancora: sushi d’asporto gustato sul divano davanti a un bel fim con birra giapponese d’ordinanza in mano sinistra, quella con la macchia. Ordinerei Zuppa di miso, Tiger Roll, California Maki e un Chirashi misto.

Penso troppo al cibo, è come se avessi un pezzo di stomaco nel cervello. Saltare troppo sul tappeto elastico da bambina deve avermi fatto male (ma era proprio davanti a casa, in montagna e non potevo mica passare tutti i giorni, tutto il giorno in bici!). Così adesso mi viene pure voglia di bistecca valdaostana e di trota salmonata.

E dopo “siamo quello che indossiamo”, ecco il “siamo quello che mangiamo”. Viste le mie forme in questo periodo è più “siamo quello che beviamo e che contiamo di eliminare il palestra”. Et voilà, come testimonia l’immagine sotto – che essendo un capolavoro di Photoshop non posso non condividere (mitica Cla, regina in materia) – è avvenuto il miracolo: mi sono iscritta in palestra.

Correva l’anno 2008 il giorno in cui abbandonai la “20hours” di Via Paolo Sarpi dopo 4-5 visite alla sala pesi e alle ciclette e, una lezione di balli caraibici accompagnata dal partner con l’alito più pesante che si possa disgustosamente immaginare. Traumatizzata dal trainer (enorme, pelato, con lacrima tatuata sotto un occhio e svastica sul braccio) non sono mai più entrata in una palestra. Eliminando un corso estivo di acquagym+ hydrobike e qualche puntata in piscina a nuotare, la mancanza di tempo e un’eccessiva dose di pigrizia hanno avuto il sopravvento su ogni iniziativa sportiva.

Acquistata l’attrezzatura (le scarpe più sportive che ho messo in valigia sono un paio di superga vintage) mi preparo automotivandomi alla mia prima lezione di Bodypump (non ho la più pallida idea di cosa sia).

Esercizi muscolari di vario genere, servendosi della barra con i pesi. Dopo 10 minuti perdo completamente la sensibilità alle gambe. L’istruttore non si capacita di come non riesca a piegarle di più, abbassandomni, stando con i piedi appoggiati a terra e la schiena dritta. Ho la sensazione che mi osservi come un vecchietto con le braccia giunte dietro la schiena e il cappello di paglia in testa, che mi guarda mentre cambio una ruota bucata dell’auto con l’occhio giudice di uno che ha fatto il meccanico di mezzi agricoli per 50 anni (scena realmente accaduta andando dal medico, una mattina).

Anche le più pesanti e informi partecipanti al corso mi fanno sfigurare, per non parlare delle due sciure verso la cinquantina, bionde, abbronzatissime e con un fisico da adolescenti. Alle flessioni mi arrendo. Terminata la lezione esco dalla sala con tutta la nonchalance di cui dispongo e recupero i miei averi custoditi nell’armadietto dello spogliatoio. Davanti a me, due compagne di corso scendono la scala che porta al parcheggio saltellando. Io scivolo lungo la passamaneria reggendomi con tutta la forza che mi resta nelle braccia: le ginocchia non rispondono ai comandi. Raggiungo l’auto camminando come un’affetta da polio e faccio un ultimo sforzo: passo dal supermercato a comprare l’acqua, il pane e della frutta prima che chiuda, mancano 20 minuti.

Dimentico di prendere il carrello ed esco per recuperarne uno. Cazzo, col carrello che avrebbe bisogno una convergenza è ancora più dura. Una prima e subito dopo una seconda commessa m’invitano a recarmi alla cassa, devono chiudere. Poi viene a cercarmi il responsabile della security, vado alla cassa diretta e a casa. Calamitata sulla poltrona non mi schiodo per una buona mezz’ora e a fatica raggiungo la doccia.

Oltre al dolore dappertutto, alleviato con gel antidolorifico, ho sempre voglia di sushi…uffa.

Immagine

Fede Fonda