Ne ho una sulla mano che si estende per quasi tutto il dorso (dita escluse). Non ha una forma, o forse non ho mai avuto un episodio di pareidolia. Mi dicono che mia nonna ne avesse una uguale, o molto simile. Me la ricordo poco, mia nonna e la sua macchia sulla mano. Quando si è in eremo e senza grossi impegni, si ha anche il tempo – molto – di ricordare.
Vedere foto di vacanze in montagna su Facebook me ne fa venire voglia (sarà che qui nemmeno il climatizzatore acceso tutto il giorno è sufficiente a trovare un po’ di sollievo in questi giorni caldi, grigi e umidissimi), ma non tanto la montagna d’estate, quella d’inverno fredda e innevata. Avrei voglia di pizzoccheri, canederli in brodo e polenta concia. Avrei voglia di riprendere (finalmente!) a sciare e soprattutto mi piacerebbe trascorrere un altro capodanno come l’ultimo, a Bormio. Provare un freddo secco e intenso mi farebbe apprezzare ancora di più la scelta di essere fuggita ai Caraibi, credo.
Questa estate – che per me è iniziata a maggio e non finirà, per quanto non riesca ancora a capacitarmene – anche questa, ho dovuto fare a meno di una cosa: il Festivalbar. Succede tutti gli anni in questo periodo: mi spiace non poterlo vedere. L’abitudine di passare le serate estive davanti alla tv a cantare come una pazza – dovendo puntualmente litigare con mio padre per il monopolio del telecomando – non riesco a togliermela. Sì, mi manca il Festivalbar! Ho impressa, come se l’avessi memorizzata ieri Sophie Ellis Bextor che canta “Murder on the dance floor” con un ombretto verde mela accesissimo e un impeccabile tubino nero (ricordo bene?). Quelli con Fiorello e la Marcuzzi sono stati i migliori, peccato non lo facciano più…
Ho voglia di sushi, terribilmente. Incrocio mezzo orentale in spiaggia e mi viene voglia di sushi. Mi basterebbe un “all you can eat” comme il faut per togliermi lo sfizio per i prossimi 3 mesi. Anzi, meglio ancora: sushi d’asporto gustato sul divano davanti a un bel fim con birra giapponese d’ordinanza in mano sinistra, quella con la macchia. Ordinerei Zuppa di miso, Tiger Roll, California Maki e un Chirashi misto.
Penso troppo al cibo, è come se avessi un pezzo di stomaco nel cervello. Saltare troppo sul tappeto elastico da bambina deve avermi fatto male (ma era proprio davanti a casa, in montagna e non potevo mica passare tutti i giorni, tutto il giorno in bici!). Così adesso mi viene pure voglia di bistecca valdaostana e di trota salmonata.
E dopo “siamo quello che indossiamo”, ecco il “siamo quello che mangiamo”. Viste le mie forme in questo periodo è più “siamo quello che beviamo e che contiamo di eliminare il palestra”. Et voilà, come testimonia l’immagine sotto – che essendo un capolavoro di Photoshop non posso non condividere (mitica Cla, regina in materia) – è avvenuto il miracolo: mi sono iscritta in palestra.
Correva l’anno 2008 il giorno in cui abbandonai la “20hours” di Via Paolo Sarpi dopo 4-5 visite alla sala pesi e alle ciclette e, una lezione di balli caraibici accompagnata dal partner con l’alito più pesante che si possa disgustosamente immaginare. Traumatizzata dal trainer (enorme, pelato, con lacrima tatuata sotto un occhio e svastica sul braccio) non sono mai più entrata in una palestra. Eliminando un corso estivo di acquagym+ hydrobike e qualche puntata in piscina a nuotare, la mancanza di tempo e un’eccessiva dose di pigrizia hanno avuto il sopravvento su ogni iniziativa sportiva.
Acquistata l’attrezzatura (le scarpe più sportive che ho messo in valigia sono un paio di superga vintage) mi preparo automotivandomi alla mia prima lezione di Bodypump (non ho la più pallida idea di cosa sia).
Esercizi muscolari di vario genere, servendosi della barra con i pesi. Dopo 10 minuti perdo completamente la sensibilità alle gambe. L’istruttore non si capacita di come non riesca a piegarle di più, abbassandomni, stando con i piedi appoggiati a terra e la schiena dritta. Ho la sensazione che mi osservi come un vecchietto con le braccia giunte dietro la schiena e il cappello di paglia in testa, che mi guarda mentre cambio una ruota bucata dell’auto con l’occhio giudice di uno che ha fatto il meccanico di mezzi agricoli per 50 anni (scena realmente accaduta andando dal medico, una mattina).
Anche le più pesanti e informi partecipanti al corso mi fanno sfigurare, per non parlare delle due sciure verso la cinquantina, bionde, abbronzatissime e con un fisico da adolescenti. Alle flessioni mi arrendo. Terminata la lezione esco dalla sala con tutta la nonchalance di cui dispongo e recupero i miei averi custoditi nell’armadietto dello spogliatoio. Davanti a me, due compagne di corso scendono la scala che porta al parcheggio saltellando. Io scivolo lungo la passamaneria reggendomi con tutta la forza che mi resta nelle braccia: le ginocchia non rispondono ai comandi. Raggiungo l’auto camminando come un’affetta da polio e faccio un ultimo sforzo: passo dal supermercato a comprare l’acqua, il pane e della frutta prima che chiuda, mancano 20 minuti.
Dimentico di prendere il carrello ed esco per recuperarne uno. Cazzo, col carrello che avrebbe bisogno una convergenza è ancora più dura. Una prima e subito dopo una seconda commessa m’invitano a recarmi alla cassa, devono chiudere. Poi viene a cercarmi il responsabile della security, vado alla cassa diretta e a casa. Calamitata sulla poltrona non mi schiodo per una buona mezz’ora e a fatica raggiungo la doccia.
Oltre al dolore dappertutto, alleviato con gel antidolorifico, ho sempre voglia di sushi…uffa.

Fede Fonda