Week #25 – grane

Rammento la coda di immigrati in fila di fronte al portone del commissariato di Corso Monforte a Milano. Mi ci imbattevo ogni volta tra quelle rare mattine in cui riuscivo ad alzarmi a un’ora tale per permettermi di andare in ufficio a piedi e ora quell’immagine la ricordo in maniera differente.

Ho iniziato a darmi da fare per ottenere i vari permessi necessari a risiedere e lavorare regolarmente sull’isola, parte olandese. Una padellata in faccia sarebbe stata più piacevole. Tempi burocratici biblici e millemila scartoffie e procedure in ballo: finchè non richiedi un documento non puoi presentare domanda per ottenerne un altro e così via, per tutto, oltre alle negative implicazioni dovute ai tempi burocratici.

Quando il paradiso si trasforma in un inferno con la sabbia che luccica. Mi vengono in mente per forza di cose i primi frame che introducono la storia in Paradiso Amaro, la voce del doppiatore di George Clooney che recita “I miei amici sul continente credono che solo perché abito alle Hawaii io viva in paradiso. Come fossi in una vacanza permanente. Pensano che qui passiamo il tempo a bere Mai Tai, a ballare l’Hula-Hula e a fare surf. Ma sono pazzi…” e conclude con “…il paradiso può andare a farsi fottere”.

Ecco, se m’immaginate abbronzatissima, in forma strepitosa, a gironzolare per spiagge tutto il giorno, forse ho ecceduto di romanza e di entusiasmo nei precedenti post…

La mia mattinata – dopo aver trascorso una nottata orribile per l’allarme antifurto di un’auto che ha urlato senza sosta e senza che il sordo proprietario della vettura si proccupasse di disattivarlo – è cominciata con la telefonata di un avvocato a cui ho richiesto appuntamento per una consulenza e a distanza di giorni si è finalmente deciso a concedermi mezz’ora del suo tempo (ci ho messo di più a trovare parcheggio a Philipsburg), spillandomi 50 dollari.

Quasi un’ora e mezza per tornare a casa da Simpson Bay dopo essere passata dall’ufficio, tra il traffico abituale e quello creato dai lavori in corso per la manutenzione delle strade (in vista dell’alta stagione ci sono cantieri ovunque!). In un’ora e mezza avrei fatto da Casale a Milano andata e ritorno, da casello a casello. Se non fosse per il panorama di cui ho potuto godere di tanto in tanto avrei tirato giù dalle loro nuvolette cristi e madonne.

Ah, tra l’altro, mentre ero dall’avvocato in sala d’attesa sono stata avvicinata da un omone nero e sorridente con un’espressione del volto buona, ma scaltra se non addirittura subdola allo stesso tempo. Era un predicatore e facendomi l’occhiolino mi ha mollato in mano un suo biglietto da visita su cui – a introdurre le informazioni di contatto – risalta la scritta gialla a caratteri cubitali “Key to Freedom”. E non ero neppure su Candid Camera.

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Sulla strada verso Grand-Case e verso casa.

Week #24 – advertiamoci!

Giorno di colloquio, sono le 10,27. Alzo gli occhi dal computer seduta al mio tavolino della Taste Factory, caffetteria (super) di Simpson Bay (hanno l’Illy, ho detto tutto!). Posto delizioso, pulito e curato, ottima pasticceria, peccato che per un espresso tu debba aspettare in media una mezz’ora. La lentezza dei baristi è inesplicabile, ma per un caffè decente questo e altro. Si potrebbe girare un documentario sui turisti americani e canadesi in coda alla cassa, poi se come sottofondo musicale c’è Bocelli che canta “venite adoremo” il put pourri si fa ancora più fragoroso.

Ah, il mio colloquio è con tale Samantha, proprietaria di un’agenzia di comunicazione ed eventi qui a St. Maarten, alle 11,00. La pubblicità mi ha attirata e accalappiata ancora una volta, temo sia un’idissolubile sposalizio, anzi no, un pacs.

Presa, ho iniziato ieri.

Dopo aver passato il week end febbricitante (un po’ perché avevo davvero la febbre che spero non ricompaia, un po’ a causa del mio stato di esaltazione per l’arrivo di Ro a St. Martin), facendo babysitting al figlio del diavolo per un numero di ore che mi sono sembrate infinite, il lunedì mattina la sveglia suona alle 7. Sono stanca, ma tutto sommato rilassata. Salto in macchina (come sempre in ritardo rispetto alla tabella di marcia che avevo premeditato) e ovviamente, arrivata a Marigot, resto bloccata nel traffico. Non sono una cattolica praticante, ma dopo dieci minuti in coda ho pregato.

Riesco ad arrivare in ufficio, al Puerta del Sol Plaza (che è un normalissimo palazzo moderno nonostante l’appellativo overpromise), spaccando il minuto.

Alle 12,30 la mia testa è già congestionata d’informazioni, il mio Mac non ha quasi più batteria carica nonostante stamattina fosse al 100% e il Burger King di fronte all’ufficio mi sta invitando a scofanarmi panino e patatite.

Resoconto del primo giorno: ho lavoro a sufficienza per passare la serata rispolverando brief, progress e query da proporre ai clienti che possono sempre tornare utili, una deadline parecchio vicina rispetto agli obiettivi da raggiungere (anche qui tutto è da realizzare entro ieri ma senza impanicarsi, belli sereni), mille connesse situazioni burocratiche da sbrigare e il panino del BK (come quello del McDonald’s di Corso XXII Marzo) lo digerirò tra un paio di giorni.

A cena mi sono cucinata una frittatina con i porri, così il mio colesterolo può tenere compagnia al mio ego “alle stelle”. Alè.

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